Archive for March 2015


Nebulosas

March 14th, 2015 — 5:24pm

Ernesto Morales

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Nebulosas

4-Medusa y nebulosas-2014-cm150x300 trittico-olio su tela copia

Osservando le pitture di Ernesto Morales si assiste a un fenomeno raro, il prender forma della materia stessa che crea le forme, cioè il pulviscolo di colore che crea le nuvole dipinte, la materia acquea che crea le nuvole vere, il vento di materia cosmica che crea le costellazioni, le nebulose. Ma le nebulose, o la loro versione terrestre le nuvole, di questi dipinti non sono solamente l’oggetto, dal momento che sembrano suggerire la loro stessa la cifra formale: la loro materia pittorica, infatti, sembra forzare il confine della propria permanenza, sembra forzare la tela perché non rappresenti una forma, ma l’impermanenza di tutte le forme. Eppure, e qui sta la ricchezza di questa pittura paradossale, quei pulviscoli di colore prendono forma stabile, seppur mimandone la transitorietà. Forse proprio come fanno le nebulose, stabili fino quasi a essere eterne agli occhi umani, ma masse di materia, teorie di stelle in perpetuo movimento. Chissà, forse proprio come il pensiero umano, un po’ nebulosa, un po’ figura della nebulosa che fu.

1-Nebulosas-2013-cm100x150 -olio su tela

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Il pianeta tossico

March 13th, 2015 — 4:11pm

Giancarlo Sturloni

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Addio

Siamo di passaggio.
Per quanto possiamo maltrattare il pianeta che ci ospita, ridurlo a una cloaca tossica, bombardarlo con radiazioni nucleari, trasformare il suolo in deserto e il mare in una laguna di plastica, saturare l’atmosfera di gas serra, lacerare lo strato di ozono, abbattere l’ultima foresta e sciogliere i ghiacci delle calotte polari, non appena ci toglieremo dai piedi la Terra si riprenderà.

Anche se ci volesse un milione di anni, sarebbe pur sempre un rutto sulla scala del tempo biologico. «Se parliamo di ere geologiche non abbiamo alcun potere sul pianeta», diceva il paleontologo Stephen Jay Gould.
Perché a conti fatti, siamo dannosi, non onnipotenti. Stiamo alterando il clima, ma non sappiamo controllarlo. Rischiamo di avere sulla coscienza un’estinzione di massa, ma neanche volendo potremmo estirpare la vita sul pianeta. Proteggiamo animali grandi e grossi come le tigri e gli elefanti, ma le zanzare si fanno beffe dei nostri zampironi. E con buona pace dei nostri micidiali diserbanti, l’ailanto, l’eucalipto e le rampicanti cresceranno sugli scheletri delle nostre metropoli.
Siamo di passaggio e il mondo andrà avanti anche senza di noi. Se non dovessimo farcela, poche creature sentiranno la nostra mancanza. I pidocchi, forse. O la rigogliosa flora batterica che colonizza le nostre cavità corporee. Ma la maggior parte delle specie tirerà un sospiro di sollievo.
Tolto il disturbo, la natura reclamerà quel che gli appartiene. Assai più in fretta di quanto non immaginiamo.
Dai chiodi del tetto, dal seminterrato o da una finestra rotta, l’acqua troverà il modo di infiltrarsi nelle nostre case di materiali a basso costo. Alla prima gelata le tubature scoppieranno. Le piante e gli insetti cominceranno a colonizzare l’interno. In meno di un secolo le muffe e l’umidità avranno indebolito l’intera struttura, fino a inclinare le pareti. A quel punto il tetto collasserà. Se avete un giardino, quel giorno sarà già una selva, la cantina un terrario, la piscina una rigogliosa piantagione [Alan Weisman, Il mondo senza di noi, Einaudi, Torino 2008].
Lasciate perdere i mutui a lungo termine.
Cinquecento anni dopo non resterà nient’altro che cocci di vetro e un cumulo di piastrelle. Il quartiere sarà ormai ricoperto di vegetazione e tra le foglie morte del sottobosco spunterà solo qualche pentola in acciaio inossidabile o una padella in ghisa.

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Suonisudine

March 13th, 2015 — 4:02pm

Geremia Vinattieri


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La composizione musicale di Geremia Vinattieri racchiude nelle sue armonie il tempo e lo spazio di una città concreta e reale, come suggerisce anche il titolo. Nata in occasione di un call for artist promosso nella città di Udine, Suonisudine si serve realmente della città, tanto come strumento musicale quanto come cassa armonica: l’artista ne registra i suoni appunto facendo risuonare la città, pizzicandola, sfregandola, percuotendola, e allo stesso tempo usa piazze parchi logge strade case come set dove far risuonare oggetti sonori. Proprio questa natura di reportage sonoro della città, rieditato in studio secondo un progetto estetico preciso, dà all’opera un valore conoscitivo originale: le permette di cogliere la memoria sonora della città, ovvero lo stratificarsi e l’intrecciarsi di spazi e tempi urbani, trasformandoli e dilatandoli nei tempi e nei ritmi dell’ascolto musicale. Ne esce una coinvolgente narrazione musicale dove i suoni, le voci, i respiri, le melodie, i battiti della città si riordinano in una di sinfonia in grado di accogliere tanto il passato che il futuro della città, ricomponendone nel proprio tempo musicale memoria e illusioni.

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Ascolta un estratto da Suonisudine, l’intero brano all’interno del dvd di in pensiero 9

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Graphic poems

March 12th, 2015 — 4:26pm

Bernardo Cinquetti / Vittorio Bustaffa

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Graphic poems

Il genere ambiguo e ibrido che incarnano i graphic poems, ovvero le poesie grafiche o fumetti poetici di Bernardo Cinquetti, testi e sceneggiatura, e Vittorio Bustaffa, illustrazioni, è già di per sé una riflessione sulle forme ambigue e ibride in cui si presenta il pensiero. In questi due graphic poems, Paysage passage e Paix, infatti le diverse temporalità e le incomparabili suggestioni di parole e immagini si rincorrono a vicenda senza sapere chi preceda e chi segua: un paesaggio che parla all’uomo e che segretamente gli si mostra per quel che è, nel primo, e un anelito di pace che non trova pace, nel secondo, attestano l’incontro e quasi la fusione tra l’autonomia di un pensiero poetante che rimane pensiero, e quella di un flusso di immagini che rimane emozione immaginifica. Un modo per essere qui e ora nella scommessa di permanenza di un senso, ma anche per farsi da parte e lasciar correre significati diversi nelle diverse temporalità dei loro linguaggi, e attendere che il loro costante attrito regali sempre un nuovo senso.

7 - paysage passage-1

7 - paysage passage-2


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La classe docente va in paradiso

March 12th, 2015 — 4:14pm

Valentina Giordano

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La classe docente va in paradiso

Realizzato nel 2009 con la Civica scuola di Cinema di Milano, il documentario di Valentina Giordano affronta la complessa e delicata situazione della classe docente italiana, alle prese con forme di precarietà sempre più persistenti e una crisi di legittimazione che è allo stesso tempo sociale, politica, professionale. Una regia spigliata e fresca sa rendere a pieno il senso di disagio ma anche di dignità, di precarietà ma anche di passione che anima i giovani insegnanti protagonisti della narrazione. L’uso del bianco e nero, la mobilità, la vicinanza, quasi l’empatia della macchina da presa non solo con il flusso degli eventi, ma con i corpi, i volti, i gesti degli insegnanti precari che prendono parola conferisce a questa opera una penetrante capacità di racconto: per un verso le voci stesse dei protagonisti che con sorprendente lucidità evocano le speranze, le frustrazioni, la pungente consapevolezza sul proprio ruolo e sulla sua importanza, la solitudine generale, l’incertezza del futuro, la grande ricchezza umana del loro mestiere. Per un altro il ricco mosaico di riflessioni e testimonianze si organizza come un saggio sulla scuola e sulla vita civile tout court, sull’apprendere e sul ruolo del sapere oggi, sulle prospettive di un’intera civiltà basata sulla trasmissione dei saperi. Il linguaggio stesso del documentario, che più che dare la parola ai protagonisti la insegue nel precario viavai dei loro spostamenti quotidiani, dimostra una rara capacità camaleontica: nascondere lo sguardo della macchina da presa dietro quello di chi parla, ma allo stesso tempo permetterle di organizzare l’intero discorso. A sei anni di distanza il documentario sembra ancora più attuale considerando che tra i giovani insegnanti intervistati nessuno ha lasciato la condizione di precario, tranne chi ha deciso di abbandonare. Attuale soprattutto se si considera il paradosso che vive la scuola anche in un paese tra i più ricchi come l’Italia, cioè quello di rendere duratura, chissà permanente, una situazione che dovrebbe essere per definizione transitoria, emergenziale: come se la precarietà intaccasse non solo il lavoro della scuola, ma il sapere stesso, nella sua qualità di eredità da trasmettere.

Guarda un estratto da La classe docente va in paradiso


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Cul de sac 3. Se saremo dinosauri

March 12th, 2015 — 4:08pm

Gianmaria Nerli | [sintomi alibi cataclismi]

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Sintomi #_1 pesci sott’acqua

Fa una grande differenza sentirsi a disagio nel mondo di oggi rispetto anche solo a una trentina di anni fa: gli sfortunati che un tempo erano o si sentivano emarginati dalla propria stessa vita, o che quella vita non accettavano, potevano comodamente riconoscersi nella metafora ittica del pesce fuor d’acqua. Hai voglia a nuotare nel grande acquario del mondo, per un verso o per l’altro da quel mondo si sarebbero sentiti e forse sarebbero effettivamente stati fuori. Incapaci di aderire alla vita che gli si apparecchiava davanti. Appunto, pesci fuor d’acqua. Oggi però quella situazione è saltata: è semplicemente impossibile cullarsi nell’illusione di stare fuori dall’acqua. L’acquario si è enormemente ingrandito e nel bene o nel male essere o sentirsi fuori dall’acqua è un’esperienza lontana dai nostri orizzonti cognitivi e forse anche emotivi. La novità è che la nostra percezione del mondo tende a equivalere all’acquario in cui nuotiamo. Che si cammini a piè sospinto per strade luminose o che si boccheggi a ogni passo difficilmente ci sentiremo fuori dall’acqua. E se proprio non si vuole rinunciare alla metafora ittica, va detto che oggi non si può far altro che essere pesci eternamente sott’acqua. Perché?

Chi ha conosciuto il disagio della civiltà e quindi non ha potuto fare a meno di misurarsi con la civiltà dei disagi rischia di restare basito, se non addirittura completamente perduto di fronte alla profondità del mutamento. La civiltà del disagio generava e si nutriva di un intrico vertiginoso di conflitti, sociali, esistenziali, familiari, generazionali, politici, allenando persone e comunità a posizionarsi in forme molteplici e dissonanti nei confronti della vita e delle sue costruzioni sociali o psichiche. Da qui sorgeva quella distanza – tra le forme dell’io e quelle del mondo – in cui si nascondeva (o esplodeva) il disagio, distanza necessaria a percepirsi in conflitto, a riconoscere la propria posizione in perpetua mobilità rispetto alla ricerca di benessere emotivo, sociale o politico che fosse. Da qui infine il disagio, vissuto e teorizzato in mille forme, a volte rivendicato (come alterità), a volte demonizzato, ma comunque perno archimedico dell’infinito muoversi e rivoluzionarsi di quella civiltà. È a partire dal silenzioso declinare di questa civiltà che rischia il senno chi si è abituato a rapportarsi al mondo in termini di disagio, cioè di superamento eternamente dilazionato di un’inconformità, o meglio di un dialogo continuamente mancato tra speranza e opportunità, tra illusione e possibilità, tra utopia e politica. Rischia perché quel dialogo e quel disagio hanno finito per essere assorbiti dagli ingranaggi di funzionamento del grande acquario in cui nuotiamo ma hanno smesso di muoverlo, di agitarlo, limitandosi a girare a vuoto. Quel disagio e quel dialogo oggi non esistono più, almeno in quei termini archimedici, perché il grande acquario si muove e si agita da solo senza bisogno di noi, dato che ha regole di funzionamento che ci eccedono, o che ai nostri occhi sfuggono nella complessità infinita del suo linguaggio fatto di numeri e algoritmi. Fatto sta, con buona pace dei pesci, che oggi quel disagio non lo vediamo e non lo sentiamo, dato che è come se fosse evaporato. E in questa evaporazione non ha lasciato in eredità nient’altro che i propri sintomi.

Sintomi # 2_la felicità del mare

Certo, per coloro che non hanno conosciuto la civiltà del disagio, o ne sono stati solo minimamente lambiti, vivere in un mondo appunto liberato dal disagio deve essere come fare surf scivolando sulle onde del mare in preda a una continua ebbrezza: non ci sono limiti alla felicità del mare se è l’unica vita che conosco, io che lo cavalco non riconosco ostacoli. Non che i limiti o gli ostacoli non esistano, ma se esistono hanno la stessa consistenza delle onde, fanno parte del mare in cui scivolo notte e giorno. Certo, certi giorni le onde saranno altissime, come la mia ebbrezza al cavalcarle, certi giorni ci sarà bonaccia e io sarò ebbro solo dell’idea di ebbrezza, ma quel mare con le sue onde sarà sempre lì ad accogliermi tra le sue spume salate. E sempre lì sarà la sua promessa di felicità, una felicità fatta di ebbrezza e di mare, dato che io non conosco altra felicità. Ma da cosa mi viene questa felicità, se in realtà io (ma potrei dire anche noi) riesco ancora vagamente a sentire di non essere felice?

Questa felicità del mare, inabissandoci ancor più nella scivolosa sostanza delle metafore, è il sintomo, il residuo di quella evaporazione, di quel disagio. Se abitiamo il mondo come pesci costantemente sott’acqua, il sintomo residuo del disagio, il sintomo del malessere sociale, esistenziale, psichico, politico prende la forma di questa ebbrezza senza piacere, di questa eccitazione senza oggetto, essendo il mare che ci si offre tutto racchiuso dentro di noi. L’acqua dell’acquario che ci contiene, e quella del mare che ci riempie non solo sono due facce di una stessa medaglia, ma mostrano la stessa consistenza, la stessa qualità, la stessa natura. Tanto che la coazione all’ebbrezza la ritroviamo in ogni ambito della vita sociale o privata, dalla spinta compulsiva al consumo alla moltiplicazione narcisistica dei nostri ego su ogni canale comunicativo, dalla perpetua smania di un godimento immediato all’incontinenza emotiva e pulsionale nei confronti di tutto ciò che esce dai nostri orizzonti di attesa e di controllo. Ma questo perché succede? Perché questa ebbrezza è così forte e attraente? Perché ci affidiamo alla sua felicità anestetica?

Se la speciale felicità del mare è il sintomo del disagio evaporato, ciò che dà sostanza a tale felicità, la coazione all’ebbrezza, non sarà forse l’espressione più diretta del linguaggio che scrive e riscrive il nostro mondo, il nostro acquario-mare? Non sarà il dispositivo che ha assorbito su di sé il disagio che un tempo aveva pure in parte provocato? Non sarà la logica profonda del capitalismo, in particolare della sua ultima versione integrale e integralista? Non sarà il sintomo stesso della trasformazione del capitalismo nella religione di se stesso, una forma di vita che satura ogni spazio, che si muove dentro e fuori di noi, e che non riusciamo più a riconoscere o distinguere, se non appunto per questa irresistibile ebbrezza? Eppure quest’ebbrezza è anche qualcos’altro. È la ragione del successo del capitalismo, è la pulsione profonda contro ogni forma di civiltà intesa freudianamente come incontro e regolazione tra il principio di piacere proprio e quello altrui, è il sintomo di un’aggressività pulsionale non più contenuta ma valorizzata e resa modello: è il sintomo dell’affermarsi di un bisogno radicale di individualità che non conosce paragoni nella storia umana. Un individualismo narcisistico che è allo stesso tempo uovo e gallina, figlio e genitore della nostra civiltà del sintomo. Una civiltà che non solo (ri)conosce solo se stessa, ma di se stessa (ri)conosce solo i sintomi.

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