Archive for March 2013
Alla co-rivoluzione! Utopie 2.0
Pierre Cattan | conversazione/web reportage
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Il saggio manifesto di Pierre Cattan dedicato alle utopie contemporanee nasce da una conversazione con Gianmaria Nerli, ed è accompagnato da un web reportage redazionale che di questo stesso tema, le cosiddette utopie 2.0, cerca di rintracciare e proporre l’immaginario attraverso la grandissima messe di immagini che esse stesse producono e rilasciano nella rete. Queste immagini accompagnano così il percorso di un ragionamento che dalla prima grande rivoluzione informatica, con il passaggio dall’atomo al bit e la conseguente digitalizzazione della cultura, segue fino all’ultima grande rivoluzione della mentalità 2.0 e del cosiddetto internet delle cose, dove dal bit si ritorna all’atomo. Ecco così che al grido di Rivoluzione! si sostituisce quello di Co-rivoluzione!, dove la parola d’ordine è condivisione, collaborazione, ripartizione delle risorse e delle responsabilità. Dove non è al’ordine del giorno un cambiamento radicale del mondo, ma un modo radicalmente diverso di parteciparlo e condividerlo.
5 poeti polacchi contemporanei / estratti
Aa.vv. | poesia
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In translation
La sera un austriaco, brillo, mi racconta della notte scorsa:
avevano due lingue loro e la terza in comune, ma straniera.
Perciò quando quello che giaceva sul lenzuolo,
per un attimo si è irrigidito, cercando la parola,
e ha chiesto a quello che giaceva su di lui:
wouldn’t you like to immerse in me?
Quello che giaceva su quello che giaceva sul lenzuolo
è uscito da se stesso
e, stando a parte, guardando quei due, che giacevano,
pensava alla parola immerse
e a quell’altro in cui davvero avrebbe voluto immergersi:
alla corrente fredda, che lecca le rive, altrove,
dunque ha detto: no, thanks, perhaps another time – ed è uscito.
Jacek Dehnel (dal ciclo Języki obce, in: Rubryki strat i zysków, 2011)
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I totem e le perline
Tutto ciò che ho è rimasto dopo i tedeschi – dopo i tedeschi la città
e dopo i tedeschi i boschi, dopo i tedeschi le tombe,
dopo i tedeschi l’appartamento, dopo i tedeschi le scale
e l’orologio, il piatto, dopo i tedeschi la macchina
e il cappotto, e il bicchiere, e gli alberi, e la radio,
e proprio su quell’immondizia mi sono costruito
la vita, su quei rifiuti, qui regnerò,
lo digerirò, lo degraderò, di questo mi è toccato
costruire la patria, so soltanto
trasformarlo in ossigeno, in azoto, in carbonio
e vivere nell’aria piena di fuliggine, così è l’ambiente.
Attenzione, una ventata mi solleva, mi
seminerò, occuperò le soffitte e le cantine,
e le dispense, le periferie, le zone selvatiche.
Tomasz Różycki
La piccola antologia di poesie polacche contemporanee che pubblichiamo su questo numero di in pensiero è una completa novità editoriale per l’Italia. Selezionati e tradotti da Justyna Orzel, i testi danno testimonianza del lavoro pluriennale di cinque giovani autori, tra i più riconosciuti in Polonia: Tadeusz Dąbrowski, Natalia de Barbaro, Piotr Macierzyński, Jacek Dehnel, Tomasz Różycki. Un modo per far conoscere, attraverso autori che abbracciano poetiche anche molto diverse, le tante strade che la poesia europea incontra per ragionare sul presente del proprio mondo e per aprirsi ai mondi del futuro.
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Futuro
Gianfranco Franchi | racconto
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Mare
Come? Come? No. No. No. Non si potrà, non si dovrà, non si andrà. Perché non… perché no, punto. E d’altra parte, vedrai. Vedrai, finirà. E bene, anche. Finirà e… ricorderai. Ricorderai, sì, ricorderai. Ricorderai tutto quanto, proprio come… sì, proprio così. Come un vecchio film. Come un lungo sogno. Ricorderai un sacco di cose. Una strada in discesa. Grigia, ma sui fianchi un po’ d’erba. Nei giardini delle ville, intorno alla discesa, tanti alberi. Fronde cariche di foglie. Scoiattoli di qua e di là, con un po’ di fortuna. Strada in discesa, almeno tre curve. Alla fine delle tre curve, uno stabilimento. Uno stabilimento bianco. Al di là dello stabilimento, il mare. L’odore del mare. Qualcosa di rigenerante. A poche bracciate, piccoli scogli. A tante bracciate di distanza, il paese d’origine di tuo nonno. Il campanile del paese di tuo nonno. Da qualche parte, nel mare, troverai una vocale: è quella che una volta. Una volta, sì. Europa adesso, e chissà. Forse le vocali potranno ancora, e allora. Le vocali faranno storia – non più soltanto una poesia di Rimbaud.
Ricorderai, sì. Ricorderai una strada in discesa. Almeno tre curve. Alla fine delle tre curve, uno stabilimento. Uno stabilimento bianco. Al di là dello stabilimento, il mare. Mare madre e mare sangue, mare storia, mare lavoro dei tuoi antenati, mare rifugio dei tuoi antenati, mare intervallo per mesi per anni di navigazione che forse non. Mare passato mare bambino mare migliore amico mare tenerezza mare gioco, mare paura delle alghe e paura che l’Adriatico non sarà più il mare dei nostri antenati. Mare più bello che a Grado e a Lignano, mare romantico come il mare di Umago. Mare dove nuoterai.
Ricorderai, sì. La bandiera rossa sul mare. Delfini o pescecani o qualcosa che le navi o la ferriera o le industrie, in genere. Bandiera rossa sul mare, nessuno niente soltanto memoria, ricordo; soltanto possibilità, soltanto prospettiva, soltanto idea vaga di domani – e tanta nostalgia di ieri. Mare nostalgia, mare malinconia, mare vita alternativa mai… e mare vita futura che ti conquisterai. Mare nessuna bugia, mare innocenza, mare poesia. Mare to’ mare. Mia mare tutta rotta, mare mezza matta, mare fragilissima, mare mezza croata.
Ricorderai, sì. Un treno. Binari tanto vecchi d’una ferrovia sbagliata – quella che porterà alla fine della città, alla capitale letteraria, e quindi alla capitale inventata. Binari tanto vecchi d’una ferrovia minore – e treni mezzi svodi che prima o poi piomberanno nella luce di quella stazione ai piedi di Sissi, l’imperatrice che tornerà. E usciremo dalla stazione e saluteremo l’Austria, l’Austria e il mare, l’Austria futura mare.
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Presente
Marina Regliani | racconto
Si alza presto, alle sei è già in piedi, fa colazione leggera, legge tre giornali, si fa la barba con il rasoio a mano, quello con la lama verticale, si sciacqua con acqua fredda, accende la macchinetta del caffè, fa la doccia caldissima, si improfuma con l’acqua di colonia che compra ogni estate in provenza, prende il secondo caffè, indossa i vestiti pronti dalla la sera prima, tranne la cravatta che sceglie al momento, prende la macchina adatta alla giornata, va allo studio, legge altri giornali, risponde alle mail, lavora da solo per qualche ora, pranza con il suo staff, sia uomini che donne, si chiude un quarto d’ora con la nuova, si riposa una mezzora, controlla le quotazioni nel televideo, si lascia passare le prime telefonate, riceve i primi appuntamenti, si fa portare il caffè, si annoia, controlla internet, controlla di nuovo il televideo, si prepara per le sue telefonate, prima il figlio, poi la compagna, la mamma, la ex moglie, l’altra ex moglie, la nuova gli porta l’aperitivo, si chiudono questa volta una mezz’ora, chiama il suo staff per il punto sulla giornata, dice a tutti il necessario per la giornata seguente, resta solo nello studio, si fa una doccia, si cambia di camicia, si passa delicatamente crema profumata sul collo, chatta un paio d’ore con sconosciute, così pratica le lingue, si masturba un paio di volte, chiama la nuova a cena, ordina per entrambi cucina giapponese, zuppa di miso chiraschi sashimi sakè, mangia in silenzio con un occhio costante al televideo, saluta la nuova, legge a voce alta un canto della divina commedia, anche se la conosce a memoria, chiama il garage per la macchina, fa un giro intorno alla città, rientra a casa, controlla il lavoro della domestica, le lenzuola pulite, le camicie in fila per colore, la colazione pronta, i saponi in fila per odore, controlla la posta elettronica, si apre una bottiglia di vino, beve un bicchiere o due mentre cammina per la casa, verifica su christie’s quali bottiglie partecipano all’asta, ne compra un paio, va in giardino, carezza i cani con lo sguardo, butta il vino che gli avanza, prepara i vestiti per il giorno dopo, lascia quelli vecchi nel bagno, controlla i denti, si guarda nudo allo specchio della camera, si mette a letto che sono ormai le tre le quattro. Finalmente sogna. È lui il protagonista. È nel futuro. Ma è donna. Tutto scorre come in un’aria di vetro. È il contrasto con l’aria gelida che entra nella stanza. Non dorme mai con la finestra chiusa. Neanche d’inverno. Il sogno è un incontro con un uomo che ama. Ma che non conosce. Non sa se l’uomo non la ama o se la ama troppo. L’effetto è comunque lo stesso. La sensazione di una indifferenza ovvia ma impenetrabile. L’uomo se ne va. Lei si sdraia ora sul divano ora sul tavolo di marmo. Dove la nonna stende la pasta. Dell’uomo resta qualcosa. Questa cosa si agita tra la gola e la bocca dello stomaco. Tossisce più volte. Pensa. Se tossisco esce dalla bocca. Malgrado gli sforzi non succede niente. La gola è già irritata quando con due dita si provoca il vomito. Al terzo tentativo esce fuori. Un impasto informe. Turgido di grasso a ciambelle. Pieno di piccoli occhi. Braccini minuscoli che si muovono. Ora ha paura. Con entrambe le mani afferra questa cosa vischiosa. Ma scivola via con tutto il suo muco. In un istante torna dentro. Capisce subito. Dalla bocca non esce. È troppo dentro ormai. Pensa. Lo spingo giù. È l’unico modo. Lo infilo tutto nello stomaco. Poi nell’intestino. Poi lo rifaccio. È l’unico modo. Si sforza al massimo. Spinge forte. Più spinge più la cosa va giù senza ostacoli. È contenta. I suoi sforzi la premiano. Sente di nuovo fiducia in sé. È sulla via giusta. Pensa all’uomo con un sorriso. Le fa meno paura. In fin dei conti non è così doloroso il lascito dell’uomo. Anzi. Ora gioca. Si diverte. Calcola. Immagina il tempo che ci vuole. Giù di corsa per i quaranta metri del suo intestino. Pensa. Lo spingo solo con i muscoli addominali. Però non sente alcuno stimolo. Forse è ancora all’inizio. Dell’intestino. Oppure scende per la strada sbagliata. Di colpo si rende conto. La cosa va sempre più giù. Corre verso il basso. Ma non si infila nell’intestino. Si interra sempre di più. Ma non la sente nell’intestino. Secondo dopo secondo si incarna sempre di più. Ma lei lo sa. Per quella via non si trova l’anello dell’ano. Se lo tocca perfino con le dita. Vuole la certezza. Prova con foga. Lo allarga. Lo slabbra. Lo scuce. Lo rompe. Tanto che scorre sangue. Ma niente cambia. Ora ne è consapevole. Ha perso il controllo. La cosa non si ferma. Sente bene che è sempre più lontana. Sempre più irraggiungibile. Sempre più incarnita. Ha una crisi di panico. Non si sente più l’intestino. Capisce. È senza organi. È esausta. Disperata. Si stende sul tavolo di marmo. Si rigira più volte nella farina finché non resta supina. Con i ginocchi ripiegati. Le cosce aperte. Si prepara al travaglio. Le nervature dei muscoli si attivano di colpo. Il corpo ora fa male. Ma ogni sensazione è lontana. Il marmo ora è ovatta. Il dolore si fa presagio. Capisce. È lei che partorisce. Si sveglia, sono le sei del mattino, fa colazione leggera, legge i giornali, si fa la barba, si sciacqua, beve il caffè, fa la doccia caldissima, beve il secondo caffè, indossa i vestiti già pronti, tranne la cravatta che sceglie al momento, va allo studio, legge altri giornali, risponde alle mail, si rinchiude per qualche ora, pranza con il suo staff, sia uomini che donne, si apparta con la nuova, la trattiene a lungo con domande fuori contratto, lei risponde che non sogna mai, che non partorisce, che non pensa al futuro, si riposa una mezzora, controlla il televideo, riceve i primi appuntamenti, controlla internet, si prepara per le sue telefonate, figlio, compagna, mamma, ex moglie, altra ex moglie, chiama il suo staff per il punto sulla giornata, resta solo nello studio, si fa una doccia, chatta con sconosciute, si masturba a lungo, congeda la nuova, cena solo, cucina giapponese, legge a voce alta un canto della divina commedia, rientra a casa, controlla il lavoro della domestica, lenzuola, camicie, colazione, saponi, controlla internet, compra gioielli on line, sceglie una bottiglia di vino, beve un bicchiere o due, va in giardino, carezza i cani con lo sguardo, butta il vino che gli avanza, prepara i vestiti per il giorno dopo, controlla i denti, si guarda allo specchio, si mette a letto che sono le quattro, giace sveglio con gli occhi aperti.
L’esperienza anticipata
Riccardo Finocchi | saggio
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Mi domando: è possibile raccontare la filosofia? Ciò che vorrei fare davvero è rivolgere uno sguardo filosofico ad avvenimenti e fenomeni che sono collegati strettamente alle attività quotidiane degli esseri umani, e osservarli attraverso un racconto che non significhi rinunciare a “fare filosofia”. È certo, non voglio dire che la filosofia pensata come un’attività puramente speculativa e svincolata dalla mera materialità, volta a cogliere categorie di tipo astratto, sia qualcosa d’inutile. Tutt’altro. Nemmeno che lo studio del pensiero classico sia ozioso, anzi è fondamentale per la comprensione di quanto, di quel pensiero, rimane ancora nella contemporaneità, di quanto ancora agisca nell’orientare le nostre azioni. Quando, però, fare una filosofia speculativa deve portare a disputare sul fatto – come pur mi è accaduto di ascoltare – che laddove Heidegger abbia scelto di apporre a una sua frase un punto fermo piuttosto che un punto e virgola, allora sarebbe il sintomo evidente di una ricaduta nella metafisica… che dire!?
Diversi anni or sono, più o meno all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, andai ad abitare in una casa del centro storico di Roma dove, tra l’altro, era rimasto uno di qui telefoni neri in bachelite, di quelli con la rotella girevole per comporre i numeri, un telefono che era già vecchio allora. Decisi di usarlo. Naturalmente sulla rete fissa, non esistevano altre reti per la telefonia. Di fatto voglio raccontarvi di telefoni. Il vecchio telefono aveva gli altoparlanti alimentati a carboncino (almeno così mi fu detto quando tentai di ripararlo) che, ormai consumati, producevano una particolare alterazione della voce. Al mio “pronto” puntualmente l’interlocutore replicava: “va tutto bene!? Stai bene!?”. La voce risuonava ovattata e metallica, forse nasale, e mi dava un tono vocale da costipato, o quantomeno addormentato, per cui l’interlocutore incalzava: “ma ti disturbo!? Stavi dormendo!?”. Certo, abituati ad ascoltare la mia voce, gli amici facevano fatica a riconoscermi… parevo un altro, sembrava la voce di un altro… la voce dell’altro… quante implicazioni filosofiche sono contenute nella voce dell’altro, quanta filosofia dell’alterità ha potuto speculare sulla fondatività del riconoscimento dell’altro per la costituzione di un’identità: nella voce dell’altro posso riconoscere ciò che mi racconta, così come solo nello sguardo dell’altro, come mi vedessi in uno specchio (Lacan docet), posso veramente riconoscermi.
Certo diversa esperienza è rispondere a un telefono portatile, il cellulare o telefonino che dir si voglia. Appunto, proprio di esperienza stiamo parlando. Così alcuni giorni fa parlando al telefono, un telefono portatile naturalmente, dopo che la conversazione aveva preso avvio, il mio interlocutore ha esclamato con una certa soddisfazione: “ah, ma sei tu!”. Il suo apparecchio cellulare si era guastato e il display non “annunciava” più il nome del chiamante, ogni telefonata era una telefonata anonima. Ma dopo un breve sforzo, un tempo diciamo di studio, mi aveva effettivamente riconosciuto. Era rimasto in attesa di percepire (e questo “percepire” e questa “attesa” sono filosoficamente rilevanti, ci torneremo) un segnale che gli permettesse di riconoscere la voce dell’altro. Cosa c’è di strano in ciò? In fondo il mio interlocutore non ha fatto altro che mettersi in ascolto, ha cercato di ascoltare la voce dell’altro per “identificare” l’altro (torna la questione dell’identità). Anomalo, semmai, è stato il tempo necessario a riconoscermi, leggermente troppo lungo. Ma è singolare anche il fatto che io mi sentissi già riconosciuto, che considerassi acquisito il fatto che l’altro sapesse già chi io fossi prima ancora di aver potuto incontrarmi effettivamente, prima ancora di aver potuto fare “esperienza” effettiva della mia voce. Un guasto tecnico, il malfunzionamento del cellulare, ha messo in crisi l’esperienza dell’altro. D’altronde, del fatto che il telefono sia un dispositivo tecnico che impatta sull’esistenza degli esseri umani ci avevano già avvisato, attraverso la semiotica e l’estetica, Gianfranco Marrone e Maurizio Ferraris.
Qui, però, mi interessa un particolare aspetto dell’episodio che ho raccontato. Mi interessa quel tempo di attesa e quel percepire (nel caso specifico: l’altro). Forse il mio interesse riguarda la possibilità di un’azione (e l’agire è importante) filosofica sui fenomeni del quotidiano, quantomeno sulla loro manifestazione in “segnali” o “segni” concreti. Cosa è accaduto in ciò che ho raccontato!? Beh, è risultato evidente che nella quotidianità ci sfugge qualcosa, non prestiamo abbastanza attenzione al fatto che il nostro telefono cellulare annulla l’attesa (NB: il tempo) che il percepire comporta, l’annulla anticipandola: so chi mi parlerà prima ancora di sentirlo parlare.
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The Red Tower / estratto
Claudio Rocchetti
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Secondo assolo proposto da in pensiero, The red Tower, è un lungo brano di musica elettronica di Claudio Rocchetti – da qualche anno uno dei musicisti elettronici più attivi e vivaci nel panorama europeo, grazie soprattutto al suo lavoro di ricerca sul suono (come elemento non solo emotivo e compositivo, ma anche materico, estratto da strumenti elettronici e analogici), sulle sue potenzialità tecniche, espressive in studio e dal vivo. The red Tower colpisce immediatamente la fantasia dell’ascoltatore per la capacità evocativa delle sue sonorità, in particolare per la singolare e notevolissima intensità che riescono a raggiungere. Intensità che però non si esaurisce solamente in una esperienza emotiva, ma che richiede anzi una speciale attenzione razionale, un’attenzione concreta ai suoni che si montano l’uno dopo l’altro: una musica fisica, con un tessuto sonoro denso e pieno di implicazioni, e insieme dotata di una speciale e magnetica forza narrativa, che sceglie ora di declinarsi in un crinale di impalpabilità (come nel pulviscolo iniziale, o nelle sfaldature finali), ora si fa quasi scontrosa e invadente (il crescendo sonico alla metà del brano). Ma soprattutto, cosa non da poco per un brano che supera i 40 minuti, tiene incollati all’ascolto con una tensione e un’urgenza che rendono merito e fanno onore all’energia di attenzione che volutamente richiede all’ascoltatore. Un insieme di sonorità, anche concrete e materiali, che forse in qualche modo prefigurano il futuro di saturazione e di silenzio della fonosfera che potrebbe ospitarci tra qualche anno, o che forse più semplicemente anticipano le asperità e le aspettative della fonosfera che il futuro ha già in serbo per noi.
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Ascolta un estratto di The Red Tower. L’intero brano di 45′03” lo trovi all’interno del dvd di in pensiero 7
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Cono d’ombra
Piero Mascetti | pittura
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I dipinti di Piero Mascetti già al primo sguardo promettono un viaggio, o meglio un’immersione, tra le diverse dimensioni del tempo che sono sottoposte alla forte centrifuga del nostro punto di vista contemporaneo. È come se spazio e tempo, quelli del presente, quelli del futuro, quelli del passato si fondessero in un’unica materia, concettuale prima che pittorica, e dessero vita a un orizzonte prigioniero dei propri gorghi: un orizzonte di vita dove la fusione dei tempi non racconta di una instabile continuità tra la storia e il futuro, magari pacificata nello slancio ideale di qualche moda, ma al contrario mostra gli scarti, il conflitto, lo scontro di materia irriducibile a qualsiasi altra materia. I dipinti di Mascetti sanno mettere bene in scena quel cono d’ombra, quella parte oscura, buia, impenetrabile che rende oscuro a noi stessi il nostro presente, quella parte del presente che nasconde, concentrata e vorticante, tutta la materia oscura che ha ereditato dal futuro.
Cul de sac. Figure del futuro…
Gianmaria Nerli | post di statistiche algoritmi cataloghi
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Statistiche # 1_un pollo a testa
Che oggi si viva nell’era o nel regno del numero non è certo né un mistero né una novità. La nostra vita sociale vola sulle ali di un’ormai ubiqua interfaccia digitale, l’archiviazione di ogni tipo di dato o informazione è affidata quasi unicamente a tecnologie digitali, l’esperienza del mondo di molta parte della popolazione urbana, ormai in via d’estinzione anche l’ultima enclave analogica, la vecchia televisione via etere, è frastagliata e frazionata tra i flussi e le combinazioni di digitalissmi 01 01 01 01. Chi non ha in mente le immagini-totem – o già forse le immagini-archetipo? – del nuovo digital millennium, la cascata di numeri a formare pareti insuperabili di 01 01 01 01 che Matrix ha scolpito nella nostra psiche?
Ma perché poi ci ostiniamo a chiamare questo mondo – che pure è stato prefigurato da almeno tre o quattro decenni di varia letteratura – digitale (dall’inglese digit, “cifra”)? Più onesta con i suoi parlanti in questo caso la lingua francese, che come spesso accade chiama cacio il cacio e pere le pere: in francese il nostro è un monde numérique. E in un mondo numerico, cioè dove tutto è ridotto a numero, anzi dove tutto è numero, informazione in forma di 01 01 01 01, la verità sempre più si manifesta sotto forma di verità statistica, come stiamo velocemente apprendendo. Sempre più sono le scelte che individui, governi o imprese affidano alle logiche predittive della statistica e della probabilità. Non importa che si stiano scegliendo politiche economiche o aborti terapeutici. La verità statistica, anche questo lo stiamo apprendendo velocemente, non può che essere orientata a confermare e sostenere il mondo dei numeri (se il numero dei portatori di tale malattia genetica è tale percentuale perché aumentarla?, se le grandezze economiche attuali sono queste perché modificarle?), numeri che si manifestano come le uniche certezze, o più propriamente, le uniche grandezze oggettive, soprattutto se si tratta dei numeri digitali delle valute. Se due bugie normalmente fanno una verità, due verità manifeste e perfettamente reciproche (il mondo numerico come orizzonte e come ipotesi) non possono che fare una verità al quadrato (così ragiona la l’intelligenza numerica), di cui non resta peraltro che constatare l’intrinseca natura metafisica (Verità2 = verità metafisica); metafisica, che pur nata in lontani lidi pre-numerici, fa comunque brodo anche nel mondo digitale, anzi con la scienza numerica dimostra di trovarsi bene, così che con grande gusto camminano dandosi il braccio, e confermandosi a vicenda: verità statistica, bref, verità universale. Se non fosse per Gini e per il suo coefficiente, maledetti, nel mondo finalmente avremmo tutti un pollo a testa.
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Il gioco dei fumetti
Claudio Calia | fumetto
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Nuovo tassello di un libro in divenire, le tavole a fumetti di Claudio Calia continuano la narrazione de Il gioco dei fumetti, di cui in pensiero aveva già pubblicato il primo capitolo. La storia si dipana da uno spunto autobiografico, che è allo stesso tempo tematizzato e usato a pretesto di congegno narrativo, dove pescando casualmente una carta, attraverso i disegni, prendono forma i vari episodi. In queste tavole, il congegno del gioco cede spazio all’episodio di vita personale, una rincorsa verso l’ospedale che è anche un viaggio verso la figlia che sta nascendo. Ma anche in questo caso storia personale e storia collettiva si intrecciano, lasciando intravedere nel ritmo serrato delle figure, nell’alternanza rapida dei tratti, il ritmo e l’alternanza del mondo, dei suoi accadimenti, dei suoi segni. Lo sguardo che si impossessa così del presente della vita è a tal punto presente e tangibile, che non potrà che essere tangibile e concreta, nelle immagini stesse che la compongono, l’attesa di futuro che si concentra nella vita che sta per nascere.