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Cina città. Tempo e spazio…
Francesco Terzago | saggio
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Guanzhou è stato abbandonato agli inizi del duemila. Gli abitanti sono stati dispersi dal governo e ora la maggior parte di loro risiede nei villaggi vi- cini. Solo poche famiglie sono tornate a vivere a in ciò che resta di questo insediamento di dinastia Song, mi ha detto il pittore che mi sta accom- pagnando, un uomo alto quasi due metri, sulla soglia dei trentanni, ex campione di badminton. Hanno sfidato le autorità occupando un tempio e alcune vecchie case in riva a uno stagno. L’agricoltura che queste persone praticano è quella di sussistenza. Crescono papaie e banani nel mezzo dei ruderi o lungo i pendii delle colline che con il loro abbraccio verde cingono questa chiazza di tetti di pietra. Allevano qualche bestia, queste famiglie: oche, polli e piccoli maiali che, durante il fine-settimana, vendono alla gente di città. La gente di città capitata da queste parti cercando quella serenità d’animo che solo la natura, il verde, è capace di risvegliare.
Da secoli la Cina è divisa tra gente di città e gente di campagna e questa fenditura che separa la popolazione in due gruppi contraddistinti ha rag- giunto le sue estreme conseguenze nell’epoca maoista, quando centinaia di migliaia di persone erano abbandonate alla fame, nelle campagne, per garantire maggiori possibilità di sopravvivenza alla popolazione intellet- tualizzata della città.
Se nasci in città potrai usufruire dei servizi che il governo ha predisposto per te in questo stesso luogo, per la campagna vale la stessa regola – ma in città ci sono gli ospedali e le scuole migliori, e le università. La popo- lazione urbana è programmata per essere l’élite economica e culturale diquesto paese, essere classe dominante. Quella rurale dovrà provvedere alla cura dei campi o verrà impiegata nelle grandi fabbriche e nei cantieri dai quali si solleveranno nuovi scintillanti grattacieli.
Ci incontriamo all’omonima fermata della metropolitana «prendi un po’» gli dico, allungandogli una delle due bottiglie d’acqua da due litri che ho comprato al Family Mart. La scala-mobile ci fa coprire un dislivello di una quindicina di metri. Emersi dal sottosuolo ci guardiamo attorno per qualche secondo «mi devo essere sbagliato, deve essere l’altra uscita» «avevi detto che era la B, e questa è la B» «sì, ho detto proprio così ma là non c’è l’albero con sotto la guardiola. Ora c’è solo una guardiola» c’è anche l’albero, in realtà. La corteccia scura come il petrolio non era spessa come avevo creduto, la polpa è nivea e tenera, la benna, come le mani di un gigante idraulico, lo ha fatto a pezzi. I pezzi dell’albero ci circondano, la chioma, le volte cupe della chioma, hanno ceduto il loro spazio al cielo abbagliante e ora si trovano sotto ai nostri piedi, le foglie sono state sbiancate dal sole e dalla pioggia «bene, appurato il fatto che questa è l’uscita e che quello è l’albero e che quella è la guardiola ora mi sento in dovere di dirti che non vedo il sentiero che avremmo dovuto percorrere». Se- guiamo la strada che corre lungo il perimetro della boscaglia, della boscaglia che nasconde il villaggio abbandonato di Guanzhou, dopo una cinquantina di metri troviamo l’entrata di un cantiere, un cantiere che solo il mese prima non esisteva, «credo che passare di qui sia lo stesso» e in effetti, una volta all’in- terno trovare la direzione mi è semplice, «dall’ultima volta che sono venuto qui sono cambiate tante cose, là c’era una piccola casa di mattoni e un altro albero, hanno tolto tutto», la base della collina è stata ripulita dagli operai, sembra una gola rasata, la vegetazione è scomparsa e ogni altra cosa è stata spianata. Il sentiero che zigzagava tra i primi edifici del villaggio è stato ampliato per consentire il passaggio dei mezzi pesanti, dobbiamo seguirlo per raggiungere la sommità della collina, poi ridiscenderemo accedendo al complesso dei tem- pli. Dalla piana si domina l’intero villaggio, all’orizzonte, quasi in ogni direzione, si ergono le gru. A una decina di chilometri in linea d’aria, probabilmente meno, si staglia lo skyline di Zhujiang New Town, centro nevralgico di Guangzhou dell’economia finanziaria. «Non credi che sia strano, per noi italiani, pensare che Guangzhou e Guanzhou possano essere due cose molto diverse tra loro seppure così geograficamente vicine… La prima, una città che ha aumentato 400 volte le sue dimensioni nell’ultimo secolo; la seconda, una manciata di case diroccate, probabilmente della tarda dinastia Qing».
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The room we make for ourselves
Pancho Tolchinsky | fotografia
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Dentro le fotografie di Pancho Tolchinsky, vissuto tra Argentina e Israele e attualmente operante a Barcellona, si intuisce già al primo sguardo un accavallarsi di situazioni e condizioni di vita, sedimenti privati e sociali che rivelano un evidente taglio antropologico. Le opere, realizzate fotografando gli interni di case in varie parti del mondo, ritraggono infatti le camere che, come dice il titolo, ognuno costruisce per sé. Ma allo sguardo antropologico, distante, riflessivo, e quindi lontano, situato al di fuori, si unisce inestricabilmente una sensibilità nostalgica, quindi solidale, empatica, vicina alle cose e agli oggetti che si accumulano e si stratificano nelle camere: camere che mostrano uno spazio molto personale e privato e allo stesso tempo l’invasione di quello spazio da parte di tutti quei prodotti che portano il marchio dell’impersonalità, prodotti con cui ci inonda l’oggettiva presenza della realtà sociale, e che rendono bene l’idea delle stratificazioni che subisce la costruzione di una identità. Così attraverso il convivere promiscuo di ritratti fotografici, simboli religiosi, figure e oggetti della cultura di massa in queste fotografie prende forma quell’immagine di memoria che la contemporaneità costantemente produce e riproduce, quella coazione a ereditare e ad accogliere che il mondo che ci preme attorno ci impone.
Ottantanni
Antonio Possenti | disegni
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I disegni che Antonio Possenti, con gusto narrativo, traccia su tavola nascono come un omaggio al bagaglio di esperienze, di memorie, pensieri, suggestioni che si accumulano in ottanta anni di vita di un artista. Disegni che, oltre alla diretta suggestione narrativa a cui rimanda il titolo a loro incorporato, si fanno metafora della straordinaria capacità che ha sempre mostrato l’arte di tramandare memoria, fondare eredità, creare legami tra pensieri e immagini di generazioni diverse. Una capacità che soprattutto oggi, epoca in cui sembra non possano esistere maestri o eredità da tramandare, pare messa in discussione dai vari sistemi che regolano arti e linguaggi. Così questi disegni, che a partire dal tratto accumulano sulla tavola segno dopo segno fino a esaurirne talvolta la superficie, ci ricordano che coltivare la memoria di sé, del mondo, delle sue immagini, delle sue sintesi, dei suoi maestri è importante non solamente per la storia dell’estetica, ma per abitare e capire gli anni che abbiamo trovato, che ci troviamo e che ci troveremo a vivere.
Madrigali con figure
Silvia Cassioli | poesia
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Le poesie, i disegni, gli oggetti di Silvia Cassioli qui pubblicati fanno parte di un ampio progetto che trova sintesi in uno spettacolo scenico interpretato da Rosaria Lo Russo. I madrigali nascono propriamente come riscritture da autori rinascimentali e barocchi, da Tasso a Guarini da Gaspara Stampa a Michelangelo, riletti secondo un punto di vista che aggancia il genere ai tempi presenti, riesumando tra gioco e archeologia la poesia d’amore e aggiornandola alle nuove figure che ne compongono oggi la galassia. Lavoro nato come libro illustrato qui l’immagine del cuore, che accompagna ossessivamente la rima baciata del madrigale, è allegoria di questa nuova e mutata sfera erotica, dove ogni passione, seppur con ironia, sembra messa in vendita. Come lo sono i vari oggetti d’amore che durante lo spettacolo vengono smerciati al pubblico: ovuli a orologeria, bruschini petrarcheschi, lacrimari, ciondoli, trasmedaglie, magneti da frigorifero. A metà tra recupero della memoria letteraria con il mondo erotico che l’accompagnava e rievocazione di una dimensione autonoma dell’amore, i Madrigali con figure toccano il cuore del problema domandandosi e domandandoci: che posto ha oggi nel nostro mondo ossessionato dal consumo l’amore?
Canzoni sussurrate lo fi
Canio Loguercio
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Con le canzoni realmente sussurrate di Canio Loguercio non si fa a tempo a porgere l’orecchio che si sprofonda nel fluire frenetico e insieme lento di una voce che sembra in cammino da sempre, espressione familiare e perturbante insieme di un mondo ctonio fatto di mormorii, fremiti e appunto sussurri. E proprio la voce dà il senso dell’opera, potente calamita che attrae e racchiude tra le proprie vibrazioni non solo il mondo di amori tragici che fa da sfondo all’album, ma un intero universo da cui sprigionano relazioni umane, memorie, corpi sempre in balia di un destino che non li comprende e non li vede. La maggior parte delle canzoni nascono come parte di un progetto articolato, Amaro Ammore, in cui si riuniscono concerto, performance, reading-live, e dove il pubblico è coinvolto in una sorta di rito collettivo che ha per oggetto le suppliche d’amore. E proprio la supplica d’amore, testi e musica sono di Canio Loguercio, è forse il genere che dà a questa voce sussurrata la possibilità di esprimere a pieno le sue qualità, facendosi luogo, oltre che di passione e tormento, di ospitalità, luogo capace di accogliere gli umori neri, gli incontri mancati, le relazioni non conformi, gli asti e le malinconie che sembrano uscire dalla memoria antica della carne per ricongiungersi a noi, per essere il l’ineludibile fardello di ogni destino. Ne viene fuori un mondo dove tutti gli elementi suggeriscono un continuo sfuggirsi, dove la memoria non coincide mai con il passato, le aspirazioni con le passioni, i sogni con il futuro, mancando di continuo l’appuntamento del desiderio. E proprio l’appuntamento mancato consegna alle canzoni la memoria di un desiderare sempre esausto ma mai esaudito, riflesso di quell’inesauribile moto, di quell’infinito scivolare da un oggetto all’altro, che dà il ritmo alle nostre vite di consumatori di desiderio.
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Ascolta un brano da Canzoni sussurrate lo fi, l’album all’interno del dvd di in pensiero 8
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Canzoni sussurrate lo fi
1. Voccarossa
2. Quello che rimane
3. Misererenobis
4. Tragicammore
5. Amarammore
6. Cierte sere
7. Giaculatoria indifferente
8. Luntanammore
9. E mo’?
10. Ai cani
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Cul de sac 2
Gianmaria Nerli |[saperi aristocrazie classi]
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Saperi # 1_tra i frutti maturi
I più informati tra noi oggi dormono sonni tranquilli. Sanno bene che tutto è a portata di mano, tutto è lassù, immagazzinato tra le nuvole, pronto per essere colto al bisogno. È come camminare tra gli alberi di un frutteto, se hai fame alzi una mano e prendi la mela. I più informati tra noi sanno bene come raggiungere ogni frutto, se hanno bisogno di una mela la colgono al volo, se hanno bisogno di un mango, di un’arancia, di un maracuyá, di una nespola o di un grappo d’uva allungano una mano, e via, si nutrono a piacimento. Sanno bene che mai come adesso ogni loro appetito, dal futile capriccio al nutrimento di sostanza, avrà risposta in poco tempo, essendo tutti i frutti raccolti e catalogati una volta per tutte da qualche parte tra le nuvole delle reti globali. Ogni frutto che cercano è già dato, ogni sapere di cui hanno bisogno è già sistemato, ogni conoscenza definita e collocata da qualche parte dentro gli infiniti server che contengono tutte le informazioni del mondo (si sprecano ovviamente i gai annunci sui miliardi di dati che si accumulano ogni ora nel mondo, un’ora di oggi ci regala più informazione di un secolo di ieri). I più informati dormono sonni tranquilli, a sentir loro, ma forse gli altri no, si agitano nel sonno, ancora infestato da fantasmi in cerca di risposte che non arrivano mai.
In effetti, a voler dare il senso di un cambiamento profondo nel paradigma contemporaneo della conoscenza, si potrebbe dire che se fino ai nostri giorni – passando per le modernità di Sei, Sette, Otto e Novecento –, il sapere era un deserto popolato di fantasmi senza riposta, o con risposte contraddittorie, oggi a noi il sapere si mostra come un frutteto dai frutti maturi, già pronti per essere presi e mangiati così come sono (se non anche un ipermercato dove brillano confezioni già predisposte all’uso). Buoni, veloci, sicuri. Pare paradossale, ma non lo è, che nell’epoca dell’incertezza, dove sembrano dissolversi i paradigmi e le identità sociali, dove i generi sessuali rischiano di estinguersi, dove i legami relazionali, affettivi, comunitari si sciolgono dagli antichi riti e dagli antichi modelli lasciandoci senza riparo, pare paradossale, ma appunto non lo è, che in un tale contesto il sapere, o meglio i saperi, accumulati dalle innumerevoli scienze in tanti anni, appaiano privi di incertezze. Sicuri, collaudati, approvati. Anche se le scienze (e le tante nuove scienze popolari) si tutelano con mille cautele protocollari, il loro sapere di fatto si offre come un insieme compatto, definito, già dato e collocato, sembrerebbe, una volta per tutte. Il sapere è appunto un frutteto di cui piano piano si definiscono i contorni, si delineano meglio gli elementi, si adattano le forme, e soprattutto i cui frutti sono sempre lì a nostra disposizione. Che vuol dire alla disposizione di chiunque (suprema illusione delle ingenue democrazie della rete), che anzi dentro quei saperi, supremo protocollo di verità, può mettere le mani e magari manipolarli all’infinito, senza intaccarne l’autorità (una verità condivisa è sempre una verità un po’ più vera, una verità come si usa dire al quadrato). Saremmo a un passo dalla felicità, ogni sapere condiviso, ogni bene fruibile, ogni contesa strategica alla portata di tutti, se non fosse che ogni tanto qualcuno tra noi si accorge che anche i frutti più maturi nascondono i loro bei fantasmi. Fantasmi che hanno il potere e il privilegio di rendere quei frutti incommestibili.
Saperi # 2_il padre viene dal futuro
Ma da dove vengono questi fantasmi? Perché perseverano nel loro tormento, spettri di autorità che non dovrebbero più intimorire nessuno? Se un tempo, liberi di scorrazzare nel loro deserto, o magari confinati tra le istituzioni deputate alla conoscenza (università, centri di ricerca, case editrici ecc.), questi fantasmi ricevevano linfa dai tanti conflitti che davano forma al sapere (tra tutti il contrasto d’autorità tra saperi ereditati e quelli messi a nuovo, tra i saperi di una classe sociale e quelli di un’altra), oggi sembrano non essere più un patrimonio pubblico, ma al più hanno licenza di sopravvivere accompagnando l’intelligenza di particolari personalità, o si limitano a illuminare fiocamente le cosiddette coscienze individuali, o al massimo brillano di luce intermittente all’interno di comunità di sodali. Eppure l’immagine del fantasma è sempre lì a far paura, a richiedere di essere continuamente esorcizzata, spazzata via, quando va male asfaltata (tra le figure pubbliche meno apprezzate attualmente non ci sono forse gli intellettuali, soprattutto chi rifiuta di specializzarsi?) Perché? Perché abbiamo bisogno di far sparire questi fantasmi? Qual è la posta in gioco? Se il fantasma è in qualche modo il residuo del nostro incontro con il padre – la legge, l’autorità del sapere, dei riti, della cultura, dell’identità, tutti campi di forza che si ereditano e che ci arrivano da un prima di noi –, il rifiuto di questo fantasma con tutti i suoi elaborati complessi (i dubbi, i conflitti, le indeterminatezze, perché no un certo tipo di violenza) è la volontà di non incontrarsi né scontrarsi con tutto ciò che ci ha preceduto. Ciò che mi precede non mi interessa. Ciò che mi ha preceduto, non mi tocca. Pena la dissoluzione di ogni progresso/promessa di futuro verso la realtà integrale delle nostre economie di mercato. Il padre, il fondamento della legge, dell’autorità, del sapere, non è più come un tempo dietro di noi, non ci orienta spingendoci alle spalle, ma ci precede nel futuro, è già avvenuto dopo di noi, è già dato, ci trascina verso di sé con lunghe corde, stringe nodi per noi senza che lo si possa nemmeno intravedere, e con ciò si erge al di sopra di qualsivoglia conflitto. È un padre senza eredità, ma ricolmo di promesse, promesse fatte al buio, ma visibilissime, limpide, brillanti. È un padre la cui legge non è confutabile, né verificabile perché avverrà dopo noi, ma è già scritto, situato, collocato, suddiviso in informazioni stoccate tra pesanti coltri di nubi. Il sapere di cui godiamo tutti noi è già scritto nel futuro, ma a differenza di un tempo, non lo si conquista più attraverso lo studio, la scommessa, la predizione (si predice qualcosa che deve ancora avvenire), lo si conosce solamente per anticipazione, dato che quel sapere, in una specie di iperparadosso di universalità, è già avvenuto nel futuro. Il sapere del nuovo padre, il sapere cioè che tutti noi vuole afferrare dal futuro, è lì, frutto maturo che coglieremo.
Ma chi dobbiamo ringraziare per questi frutti? Chi dobbiamo ringraziare per aver trasformato la ricerca del sapere in un problema sostanzialmente tecnico (aver accesso alle reti, qualsiasi tipo di rete), cioè saper alzare la mano laggiù dove il frutto è depositato? Del resto qualsiasi nostro problema è trasformato in un problema sostanzialmente tecnico, fin dal momento, almeno, in cui qualsiasi nostro moto, pensiero, desiderio verso un oggetto entra nel sacro recinto del bene di consumo, che ha ormai il monopolio di ogni liturgia, rituale o culto umano (fuoriusciti ormai dal sacro i corpi, le persone, la stessa vita presente o futura), e che assoggetta e sussume a sé qualsiasi altro possibile spazio d’azione: da qui la tecnica/tecnologia come educazione, esercizio, catechesi per raggiungere i molti porti del sacro recinto del bene di consumo, sacro recinto che include, quale principale attrazione i saperi, quegli stessi saperi che il distratto padre del futuro non ci lascerà mai in eredità, ma che ci promette oggi di poter acquisire sotto forma di semplice frutto.
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Bandiera rossa
Ugo Pierri | acquarelli
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Gli acquarelli di Ugo Pierri hanno l’immediata forza visiva di un fantasma che appare all’improvviso, sbucato magari attraverso il muro della nostra quasi dimenticata storia recente. La bandiera rossa è allo stesso tempo l’oggetto carico di significati storici, simbolici, emotivi e il fantasma degli uomini e delle donne che per alcuni decenni quell’oggetto hanno issato al vento, o avviluppato intorno ai corpi. E proprio quei corpi, avvolti da una leggera aureola espressionista, coperti della patina deformante della storia, sono i protagonisti fantasmatici ma reali dei disegni. E di quei corpi le bandiere sventolano la passione, l’entusiasmo, la solidarietà, la fiducia, ma anche le malinconie, le solitudini, le sconfitte, gli errori, un turbine di speranze, illusioni e disillusioni capace di coinvolgere tre o quattro generazioni del secolo scorso. La bandiera rossa che Ugo Pierri attraverso il filtro dell’allegoria resuscita come fantasma, ha il pregio di far tornare in vita anche la figura spettrale dell’utopia: l’idea che anche il mondo privo di memoria del nostro presente globalizzato può essere attraversato da fremiti e conflitti, e chissà dal desiderio di essere cambiato profondamente.
In volo
Gli Aquiloni di Anna Onesti, qui visibili in volo nelle foto di Fabio Massimo Fioravanti, oltre a essere raffinate sculture volanti ispirate alla tradizione giapponese, sono una metafora immediata di come ci si pone di fronte allo scorrere del tempo. Sostenuti da materiali leggerissimi, agili e insieme resistentissimi, gli aquiloni, dipinti da Anna Onesti su vari tipi di specialissima carta giapponese, e montati su strutture di bambù realizzate da Fabrizio Di Pietro, inseguono e si lasciano inseguire dal vento che li muove, ingaggiando una sorta di lotta all’ultimo respiro, che non si decide mai, dato che non esiste una scelta definitiva tra le due attitudini principali, assecondare il vento oppure resistergli. Così appunto la metafora ritorna al tempo di vita di ognuno, dove non sempre si ha le idee chiare se resistere o assecondare le sorti del nostro tempo presente, ingaggiando una lotta che non sappiamo se aprirà le porte di un futuro o lascerà tutto in balia del vento.