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paradossi della libertà

October 1st, 2018 — 1:29am

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#_1

Paradosso contemporaneo della libertà, secondo il modo di vita occidentale: le persone sentono di godere e godono indubitabilmente di una sempre più ampia libertà individuale; sono sempre meno vincolate verso codici etici e regolativi, schemi di comportamento, impostazioni morali o simboliche stringenti, verso obblighi formali/sostanziali nei confronti delle istituzioni; sentono di non dovere più rispondere, come accadeva un tempo, a autorità centrali e sovrane. Si sentono sempre più libere di scegliere a favore del proprio benessere privato, dall’orientamento sessuale alla responsabilità verso l’altro, dai legami affettivi alla affermazione delle proprie passioni. Un mondo liquido, senza legami, senza riferimenti, o senza costrizioni, un mondo “liberato” per l’individuo. Eppure il mondo “liberato” per l’individuo è allo stesso tempo anche un mondo “liberato” dal soggetto, il quale è assorbito quasi completamente dalla condizione di individuo, che a sua volta si identifica sempre più con il proprio involucro, o esoscheletro, di relazioni e prestazioni sociali. Tanto che qualsiasi persona sana di mente si sente sempre più costretta e imprigionata nella mole quotidiana delle richieste sociali: dover essere sempre efficiente e produttivo in ogni momento e ambito della vita (dalla percezione di sé come persona che si afferma, alla conquista di uno status anche lavorativo, dalle performance affettive o sessuali, alla cura di sé); rispondere al dovere di essere in comunicazione in tempo reale (mail telefonate social ecc.); rispondere all’obbligo del godimento perpetuo, in nome di una vita costantemente piena di sensazioni e dove si intensificano le esperienze del mondo (una vita non basta a conoscere il mondo, bisogna viverne varie, accelerare tutti i tempi); rispondere all’obbligo di una costante valutazione del proprio passaggio nel mondo, a costo di non rimanere indietro nel computo economico che a ognuno viene richiesto di fare su se stesso; mettere tutto a valore, doversi sentire in perpetua crescita, e quindi espandere sempre i propri territori o domini; sentirsi obbligati a rispondere alle ingiunzioni della burocrazia ipertrofizzata o della tecnologia (che gareggiano l’una con l’altra). Sentirsi in definitiva sempre più risucchiati dal principio della competitività (essere sempre sul mercato, come persone e come individui) e costretti all’interno di un meccanismo (la ruota del criceto) che richiede prestazioni a ciclo continuo in favore della libertà di scelta personale, ma a discapito tanto della condivisione collettiva, e quindi della partecipazione politica, quanto della possibilità di esistere come soggetto portatore di desiderio. Da qui la domanda:
Questa libertà rende liberi?
Questa libertà rende felici?
Questa libertà lascia uno spazio reale a un’ipotetica autorealizzazione di sé, se non alla conquista dell’autonomia e dell’emancipazione?
Questa libertà prevede ancora la presenza dell’essere umano, nelle sue caratteristiche specie specifiche, e cioè privo di uno scopo determinato, aperto alla contingenza illimitata, e quindi alla continua ricerca di senso, o fabbrica un individuo già disegnato dentro format che di questa libertà permettono la riproduzione?

#_2

Se pure la nostra modernità contemporanea (liberale, democratica, scientifica, tecnologica, impegnata per i diritti civili ecc.) ha nel nucleo fondamentale del proprio progetto il concetto stesso di libertà, quale principio inderogabile e bene universale intangibile, e sa di averlo ricevuto come principale eredità della rivoluzione francese (che lo espresse nella sintesi del celeberrimo motto “liberté, egalité, fraternité” – obiettivo illuministico complessivo da perseguire verso l’emancipazione di persone, individui e popoli), questa stessa eredità tuttavia nel corso del ventesimo secolo si è gradualmente dissipata; tanto che adesso si lascia conoscere ogni giorno nella sua versione mutilata, che può riassumersi nel nuovo motto: “liberté egalité fraternité”. Dove “egalité” e “fraternité” continuano a rimanere sullo sfondo, come idea astratta, obiettivo ideale perseguito dalle persone di buona volontà e dalle istituzioni che si definiscono “democratiche”, ma che in realtà è un obiettivo caduto in oblio, finito in una «morta gora» del fare e del sentire, a seguito della graduale eclissi della politica quale motore del mondo e delle coscienze a favore dell’economia trionfante e delle sue logiche. In termini politici e sostanziali è dunque decisivo mettere a fuoco cosa e chi coinvolge la retorica e la pratica attuale della libertà: non le comunità; non i gruppi; non le minoranze; non i territori; ma solamente alcuni individui in termini ideali; le merci e il denaro astratto in termini reali; i corpi o le persone in quanto oggetti economici e/o merci (forza lavoro; consumatori; target commerciali) in termini reali.
Chi allora oggi può dirsi libero?
E soprattutto, se questa libertà non è fraterna e non è uguale e quindi non è, di fatto, un principio estendibile all’intero globo, chi e quanti sono quelli che hanno, o hanno avuto, diritto alla libertà?
Chi oggi non è uguale?
Chi oggi non è fratello, compagno, umano?
Insomma, chi oggi non è libero?

#_3

La libertà degli individui (e dei beni), tanto nella percezione comune che nella teoria politica ed economica, è una condizione tanto importante e irrinunciabile, che dove è assente occorre esportarla (insieme alla democrazia) con la forza delle le armi; senza che di questo sia percepito, neppure ironicamente, il paradosso. Paradosso che in molti momenti della storia moderna il capitalismo ha ora celebrato ora nascosto, ma che non ha mai negato. Attualmente il neoliberalismo, che della libertà e del capitalismo ha declinato le sue versioni, si è inverato addirittura come qualcosa di più di un’idea regolatrice o di un’ideologia divenuta egemone: piuttosto una forma di vita che, sebbene spesso fallimentare sul proprio piano d’azione, l’economia, si è affermata come nuova mentalità e nuovo sensorio – una nuova antropologia – sostituendosi a quasi tutte le forme di vita sociale e psichica che l’hanno preceduta. La messa a valore di ogni cosa, compresa la vita stessa; la coazione al calcolo economico come principio assoluto; la competizione e la concorrenzialità come metro di relazione tra le persone, le comunità, gli stati; la subordinazione delle decisioni politiche a una presunta libertà di scelta individuale; la spinta costante alla crescita personale, pena un sentimento di inadeguatezza e sconfitta. Questo è divenuto il modo di vivere di miliardi di persone nel mondo, eppure è una condizione pesantissima sul piano della felicità sociale, oltre di quella individuale, schiacciata sotto il peso delle passioni tristi, e della cosiddetta nuova clinica psicoanalitica: ansia, depressione, anoressia, bulimia, attacchi di panico ecc. Incredibilmente questa macchina sociale, dominata dal suo algoritmo di valore, che deve mantenere la vita stessa all’interno delle dinamiche di mercato, alla fine non differisce dalla vita sociale nel suo insieme, nel senso che alla fine la modella a sua immagine (l’uomo unidimensionale dell’antropologia neoliberale ha perso la capacità di confrontarsi tanto con il fuori di sé, quanto con il proprio inconscio). Si fa sempre più evidente che amministrare la distribuzione di ciò che è desiderabile (e quindi dominare attraverso le passioni, invece che attraverso la coercizione) è forse l’effetto più evidente del nuovo dominio totalizzante ma invisibile del capitalismo della nostra epoca (e della sua natura di classe): dominio affidato a una nuova divinità, l’algoritmo del valore che regola senza difficoltà tanto l’immaginario della potenza, che quello dell’impotenza. La natura arbitraria del mondo sociale non è mai stata così pacificamente inoculata come natura necessaria, come dato di fatto, come immagine diretta del mondo.
Alla fine dunque scegliamo liberamente di essere liberi?
Sappiamo cosa comporta essere liberi in questo modo?
Sappiamo a chi si rivolge, chi libera e chi domina questa libertà?
E poi qualcuno è libero dal dover essere produttivo?
Dall’obbligo di consumare?
Non è forse questa esistenza libera e liberata una delle forme di vita più totalitarie che si siano mai immaginate?
Non era forse il potere sovrano un gradino sotto a questo congegno o algoritmo che fa di tutto per chiudere gli spazi alla possibilità non solo di modificare il mondo, ma anche di essere, o essere nel mondo?

#_4

Come si coniughi per l’individuo occidentale il godimento del massimo delle libertà (con tutti i suoi corollari di libera scelta, autonomia da un potere sovrano, emancipazione dai bisogni, accesso al benessere) al sentimento di vivere in un congegno sociale di cui non si conoscono i meccanismi e sul cui funzionamento non si può intervenire, tantomeno modificare, e in cui, al massimo del conformismo, ognuno può scegliere, o meglio desiderare, di essere esattamente allineato all’algoritmo della normalità (una nuova forma di totalitarismo di fatto), è anche questo un paradosso che, questa volta sì ironicamente (se non fosse per la sofferenza psichica e sociale che comporta), resta velato alla percezione comune. In questa dimensione totalitaria, a differenza del totalitarismo classico regolato da un potere sovrano, non rimane tendenzialmente alcuno spazio vuoto: vale a dire che rimane sempre meno spazio (e meno tempo) all’impensato, al desiderio, alla speranza, all’utopia. L’infelice espressione “tempo libero” dà l’idea di come siano stati sistematicamente saturati gli spazi che un tempo rimanevano vuoti insieme alle anomalie del desiderio: le industrie del turismo e dell’intrattenimento di massa, senza parlare dei mezzi di comunicazione commerciali, danno l’idea di come anche il vuoto esistenziale, non solo il tempo libero dal lavoro, è stato brillantemente messo a valore. Il tempo dell’inoperosità e dell’improduttività, il tempo che gli antichi chiamavano ozio, è stato cancellato dall’orizzonte di vita legittimo e esente da colpe; tanto che questo tempo inoperoso si trasforma o in noia (riflesso anche della sempre più tipica identificazione di sé nel lavoro) o nella coazione a riempire quel tempo potenzialmente vuoto di esperienze sempre nuove (viaggi, concerti, spettacoli, degustazioni ecc.), ma che raramente sono esperienze, si sarebbe detto un tempo, autentiche. La noia come negazione e la coazione all’esperienza sono d’altro canto le due facce della stessa medaglia: nel nostro mondo non c’è spazio per ciò che non crea valore. La figura dell’imprenditore integrale, l’imprenditore di se stesso, rappresenta bene il tipo antropologico di questo mondo, dove la libertà di mettere e di mettersi a valore diviene la natura dentro la quale individui e persone si muovono senza nemmeno saperlo.
Ma alla fine, nell’intimità quotidiana, ci accorgiamo, siamo consapevoli, al di là della retorica razionale, di essere liberi?
O piuttosto ci lasciamo trasportare dolcemente dal flusso dell’algoritmo della libertà?
O piuttosto ancora la condizione di libertà si è fatta opaca, ha smesso di essere un’opzione?
E allora quanto a lungo saremo disposti a tollerare di essere liberi?
E quanto a lungo ci sentiremo liberi in un mondo totalitario e totalizzante?
E, ancora più urgentemente, ci sono o ci saranno alternative al dominio dell’uomo libero?

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Christian Sinicco/Babygelido_Alter

January 27th, 2016 — 10:06am

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La performance poetico musicale di Christian Sinicco, autore di testi e voce, e dei Baby Gelido, autori di musiche e effetti sonori, già dal primo ascolto evoca una realtà segnata da squarci di spazi urbani desolati, e da un paesaggio dominato da atmosfere crepuscolari e decadenti. L’uomo che attraversa la città esplosa, durante e dopo l’apocalisse, o meglio, le apocalissi, è portatore di un’identità mutante, è un soggetto in bilico, sulla soglia, non più essere umano ma neppure ancora un androide. Flussi, paradossi visivi e sonori lo pervadono, e la sua frammentazione cresce di pari passo con la frammentazione della realtà che lo circonda. In uno scenario del genere, dove un’idea totalizzante e esclusiva del futuro ha cancellato ogni presente e ogni passato, sembra scomparsa ogni possibilità di unità, di comprensione univoca, di certezza logica: in questo futuro che avanza a ritroso, solo con i sensi si può ancora conoscere, fare esperienza del mondo, del proprio corpo, della propria esistenza.

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Quel che resta della lingua

April 1st, 2015 — 10:29pm

Adrián N. Bravi

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Uomo e lingua madre

Tra gli Angmassalik, una popolazione eschimese della Groenlandia su- doccidentale, racconta Hagege nel suo libro, Morte e rinascita delle lingue, alcuni anziani in punto di morte, per sottrarsi alla fatalità del destino, cam- biano patronimico, in modo che quando la morte si presenta non possa identificarli, perché quel Tal de Tali non si trova più sotto il suo nome di nascita. E dunque ribattezzandosi (non si tratta di un battesimo vero e pro- prio, ma di una nuova investitura) possono sfuggire alla sorte, appunto perché c’è la concessione che sotto il nome si celi l’identità d’ogni singolo individuo. Quindi, cambiando nome possono diventare altro da quello che erano. Da una parte perdono la loro identità, perché al primo nome non corrisponde più nessun corpo o anima che sia, dall’altra però acquistano una nuova esistenza che può restituire loro la libertà che non avevano con l’altro nome. un caso simile agli Angmassalik, ma con un connotato so- ciale diverso, si trova tra alcuni giapponesi che a causa della propria diffi- coltà economica (debiti, ricatti, licenziamenti, ecc.) decidono di scomparire per costruirsi una nuova vita altrove e chiudere con il proprio passato.
Gli Johatsu, che in giapponese vuol dire evaporare, sfumare nel nulla. E sembra che in Giappone sia plausibile “diventare un altro” da quello che si era prima di trasformarsi in un disoccupato, per esempio. Ora, che cosa resta di tutto questo una volta che abbiamo cambiato la nostra identità (sia perché inseguiti dalla morte o dai propri creditori)? Possiamo fare a meno dei nostri tratti fisici (ci sono persone che lo fanno senza essere perse- guitati da nulla, se non dalla smania di vedersi diversi dagli altri o uguali a qualcuno), possiamo anche fare a meno del comportamento o delle nostre abitudini, ma non potremo mai cambiare la nostra propria identità linguis- tica, perché è costitutiva del nostro essere: «l’essere dell’uomo poggia sul linguaggio», dice Heidegger. Dunque, se c’è un’identità nell’uomo questa è data dalla lingua, perché la lingua non è solo un modo di parlare o di es- primersi, ma è un modo di essere e di stare al mondo. Siamo nella nostra lingua, ci contiene nel suo guscio, a prescindere dal nostro nome. Non è pura comunicabilità, la lingua ci svela nel nostro essere e nella nostra intimità. Mi viene in mente quel passo del Libro dei Giudici (12.5-6) dove si racconta la storia degli Efraimiti. Quando un fuggiasco d’Efraim chiedeva di lasciarlo passare i Galaaditi gli domandavano: «Sei un Efraimita?» Se l’Efraimita rispondeva di no, i Galaaditi gli chiedevano di dire la parola shibboleth (scelta come segno di riconoscimento per la difficoltà di pro- nuncia). Allora il fuggiasco invece di dire shibboleth diceva qualcosa tipo sibboleth, senza fare attenzione alla pronuncia e quindi, chi non era capace di articolare correttamente la parola, veniva identificato come straniero. A quel punto i Galaaditi lo prendevano e lo scannavano. Questa storia sem- bra porci di fronte all’impossibilità di negare la nostra identità: la parola ci svela e ci denuda di fronte all’altro. Persino quando parliamo una lingua diversa dalla nostra lingua madre, rimane sempre dentro di noi uno sguar- do, un modo di vedere la realtà e di interpretarla che apparteneva alla nostra lingua d’origine. La lingua madre determina il nostro modo di stare al mondo, perché più che in un mondo, si nasce in una lingua. Insomma, possiamo chiederci, cosa rimane della nostra lingua madre quando par- liamo o scriviamo in un’altra lingua diversa dalla nostra? Mi piace pensare che parliamo la nostra lingua d’infanzia in tante altre lingue e che quella lingua che ci ha visto nascere e crescere non muore mai, rimane nascosta dentro di noi. Stabiliamo un vincolo che non viene mai a meno, appunto perché è difficile, se non impossibile, perdere la propria lingua madre o materna lingua (come dicevano i medievali: il primo riferimento a questo sintagma lo troviamo in un testo mediolatino risalente al 1119 circa).

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Nebulosas

March 14th, 2015 — 5:24pm

Ernesto Morales

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Nebulosas

4-Medusa y nebulosas-2014-cm150x300 trittico-olio su tela copia

Osservando le pitture di Ernesto Morales si assiste a un fenomeno raro, il prender forma della materia stessa che crea le forme, cioè il pulviscolo di colore che crea le nuvole dipinte, la materia acquea che crea le nuvole vere, il vento di materia cosmica che crea le costellazioni, le nebulose. Ma le nebulose, o la loro versione terrestre le nuvole, di questi dipinti non sono solamente l’oggetto, dal momento che sembrano suggerire la loro stessa la cifra formale: la loro materia pittorica, infatti, sembra forzare il confine della propria permanenza, sembra forzare la tela perché non rappresenti una forma, ma l’impermanenza di tutte le forme. Eppure, e qui sta la ricchezza di questa pittura paradossale, quei pulviscoli di colore prendono forma stabile, seppur mimandone la transitorietà. Forse proprio come fanno le nebulose, stabili fino quasi a essere eterne agli occhi umani, ma masse di materia, teorie di stelle in perpetuo movimento. Chissà, forse proprio come il pensiero umano, un po’ nebulosa, un po’ figura della nebulosa che fu.

1-Nebulosas-2013-cm100x150 -olio su tela

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Il pianeta tossico

March 13th, 2015 — 4:11pm

Giancarlo Sturloni

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Addio

Siamo di passaggio.
Per quanto possiamo maltrattare il pianeta che ci ospita, ridurlo a una cloaca tossica, bombardarlo con radiazioni nucleari, trasformare il suolo in deserto e il mare in una laguna di plastica, saturare l’atmosfera di gas serra, lacerare lo strato di ozono, abbattere l’ultima foresta e sciogliere i ghiacci delle calotte polari, non appena ci toglieremo dai piedi la Terra si riprenderà.

Anche se ci volesse un milione di anni, sarebbe pur sempre un rutto sulla scala del tempo biologico. «Se parliamo di ere geologiche non abbiamo alcun potere sul pianeta», diceva il paleontologo Stephen Jay Gould.
Perché a conti fatti, siamo dannosi, non onnipotenti. Stiamo alterando il clima, ma non sappiamo controllarlo. Rischiamo di avere sulla coscienza un’estinzione di massa, ma neanche volendo potremmo estirpare la vita sul pianeta. Proteggiamo animali grandi e grossi come le tigri e gli elefanti, ma le zanzare si fanno beffe dei nostri zampironi. E con buona pace dei nostri micidiali diserbanti, l’ailanto, l’eucalipto e le rampicanti cresceranno sugli scheletri delle nostre metropoli.
Siamo di passaggio e il mondo andrà avanti anche senza di noi. Se non dovessimo farcela, poche creature sentiranno la nostra mancanza. I pidocchi, forse. O la rigogliosa flora batterica che colonizza le nostre cavità corporee. Ma la maggior parte delle specie tirerà un sospiro di sollievo.
Tolto il disturbo, la natura reclamerà quel che gli appartiene. Assai più in fretta di quanto non immaginiamo.
Dai chiodi del tetto, dal seminterrato o da una finestra rotta, l’acqua troverà il modo di infiltrarsi nelle nostre case di materiali a basso costo. Alla prima gelata le tubature scoppieranno. Le piante e gli insetti cominceranno a colonizzare l’interno. In meno di un secolo le muffe e l’umidità avranno indebolito l’intera struttura, fino a inclinare le pareti. A quel punto il tetto collasserà. Se avete un giardino, quel giorno sarà già una selva, la cantina un terrario, la piscina una rigogliosa piantagione [Alan Weisman, Il mondo senza di noi, Einaudi, Torino 2008].
Lasciate perdere i mutui a lungo termine.
Cinquecento anni dopo non resterà nient’altro che cocci di vetro e un cumulo di piastrelle. Il quartiere sarà ormai ricoperto di vegetazione e tra le foglie morte del sottobosco spunterà solo qualche pentola in acciaio inossidabile o una padella in ghisa.

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Suonisudine

March 13th, 2015 — 4:02pm

Geremia Vinattieri


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La composizione musicale di Geremia Vinattieri racchiude nelle sue armonie il tempo e lo spazio di una città concreta e reale, come suggerisce anche il titolo. Nata in occasione di un call for artist promosso nella città di Udine, Suonisudine si serve realmente della città, tanto come strumento musicale quanto come cassa armonica: l’artista ne registra i suoni appunto facendo risuonare la città, pizzicandola, sfregandola, percuotendola, e allo stesso tempo usa piazze parchi logge strade case come set dove far risuonare oggetti sonori. Proprio questa natura di reportage sonoro della città, rieditato in studio secondo un progetto estetico preciso, dà all’opera un valore conoscitivo originale: le permette di cogliere la memoria sonora della città, ovvero lo stratificarsi e l’intrecciarsi di spazi e tempi urbani, trasformandoli e dilatandoli nei tempi e nei ritmi dell’ascolto musicale. Ne esce una coinvolgente narrazione musicale dove i suoni, le voci, i respiri, le melodie, i battiti della città si riordinano in una di sinfonia in grado di accogliere tanto il passato che il futuro della città, ricomponendone nel proprio tempo musicale memoria e illusioni.

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Ascolta un estratto da Suonisudine, l’intero brano all’interno del dvd di in pensiero 9

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Graphic poems

March 12th, 2015 — 4:26pm

Bernardo Cinquetti / Vittorio Bustaffa

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Graphic poems

Il genere ambiguo e ibrido che incarnano i graphic poems, ovvero le poesie grafiche o fumetti poetici di Bernardo Cinquetti, testi e sceneggiatura, e Vittorio Bustaffa, illustrazioni, è già di per sé una riflessione sulle forme ambigue e ibride in cui si presenta il pensiero. In questi due graphic poems, Paysage passage e Paix, infatti le diverse temporalità e le incomparabili suggestioni di parole e immagini si rincorrono a vicenda senza sapere chi preceda e chi segua: un paesaggio che parla all’uomo e che segretamente gli si mostra per quel che è, nel primo, e un anelito di pace che non trova pace, nel secondo, attestano l’incontro e quasi la fusione tra l’autonomia di un pensiero poetante che rimane pensiero, e quella di un flusso di immagini che rimane emozione immaginifica. Un modo per essere qui e ora nella scommessa di permanenza di un senso, ma anche per farsi da parte e lasciar correre significati diversi nelle diverse temporalità dei loro linguaggi, e attendere che il loro costante attrito regali sempre un nuovo senso.

7 - paysage passage-1

7 - paysage passage-2


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La classe docente va in paradiso

March 12th, 2015 — 4:14pm

Valentina Giordano

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La classe docente va in paradiso

Realizzato nel 2009 con la Civica scuola di Cinema di Milano, il documentario di Valentina Giordano affronta la complessa e delicata situazione della classe docente italiana, alle prese con forme di precarietà sempre più persistenti e una crisi di legittimazione che è allo stesso tempo sociale, politica, professionale. Una regia spigliata e fresca sa rendere a pieno il senso di disagio ma anche di dignità, di precarietà ma anche di passione che anima i giovani insegnanti protagonisti della narrazione. L’uso del bianco e nero, la mobilità, la vicinanza, quasi l’empatia della macchina da presa non solo con il flusso degli eventi, ma con i corpi, i volti, i gesti degli insegnanti precari che prendono parola conferisce a questa opera una penetrante capacità di racconto: per un verso le voci stesse dei protagonisti che con sorprendente lucidità evocano le speranze, le frustrazioni, la pungente consapevolezza sul proprio ruolo e sulla sua importanza, la solitudine generale, l’incertezza del futuro, la grande ricchezza umana del loro mestiere. Per un altro il ricco mosaico di riflessioni e testimonianze si organizza come un saggio sulla scuola e sulla vita civile tout court, sull’apprendere e sul ruolo del sapere oggi, sulle prospettive di un’intera civiltà basata sulla trasmissione dei saperi. Il linguaggio stesso del documentario, che più che dare la parola ai protagonisti la insegue nel precario viavai dei loro spostamenti quotidiani, dimostra una rara capacità camaleontica: nascondere lo sguardo della macchina da presa dietro quello di chi parla, ma allo stesso tempo permetterle di organizzare l’intero discorso. A sei anni di distanza il documentario sembra ancora più attuale considerando che tra i giovani insegnanti intervistati nessuno ha lasciato la condizione di precario, tranne chi ha deciso di abbandonare. Attuale soprattutto se si considera il paradosso che vive la scuola anche in un paese tra i più ricchi come l’Italia, cioè quello di rendere duratura, chissà permanente, una situazione che dovrebbe essere per definizione transitoria, emergenziale: come se la precarietà intaccasse non solo il lavoro della scuola, ma il sapere stesso, nella sua qualità di eredità da trasmettere.

Guarda un estratto da La classe docente va in paradiso


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Cul de sac 3. Se saremo dinosauri

March 12th, 2015 — 4:08pm

Gianmaria Nerli | [sintomi alibi cataclismi]

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Sintomi #_1 pesci sott’acqua

Fa una grande differenza sentirsi a disagio nel mondo di oggi rispetto anche solo a una trentina di anni fa: gli sfortunati che un tempo erano o si sentivano emarginati dalla propria stessa vita, o che quella vita non accettavano, potevano comodamente riconoscersi nella metafora ittica del pesce fuor d’acqua. Hai voglia a nuotare nel grande acquario del mondo, per un verso o per l’altro da quel mondo si sarebbero sentiti e forse sarebbero effettivamente stati fuori. Incapaci di aderire alla vita che gli si apparecchiava davanti. Appunto, pesci fuor d’acqua. Oggi però quella situazione è saltata: è semplicemente impossibile cullarsi nell’illusione di stare fuori dall’acqua. L’acquario si è enormemente ingrandito e nel bene o nel male essere o sentirsi fuori dall’acqua è un’esperienza lontana dai nostri orizzonti cognitivi e forse anche emotivi. La novità è che la nostra percezione del mondo tende a equivalere all’acquario in cui nuotiamo. Che si cammini a piè sospinto per strade luminose o che si boccheggi a ogni passo difficilmente ci sentiremo fuori dall’acqua. E se proprio non si vuole rinunciare alla metafora ittica, va detto che oggi non si può far altro che essere pesci eternamente sott’acqua. Perché?

Chi ha conosciuto il disagio della civiltà e quindi non ha potuto fare a meno di misurarsi con la civiltà dei disagi rischia di restare basito, se non addirittura completamente perduto di fronte alla profondità del mutamento. La civiltà del disagio generava e si nutriva di un intrico vertiginoso di conflitti, sociali, esistenziali, familiari, generazionali, politici, allenando persone e comunità a posizionarsi in forme molteplici e dissonanti nei confronti della vita e delle sue costruzioni sociali o psichiche. Da qui sorgeva quella distanza – tra le forme dell’io e quelle del mondo – in cui si nascondeva (o esplodeva) il disagio, distanza necessaria a percepirsi in conflitto, a riconoscere la propria posizione in perpetua mobilità rispetto alla ricerca di benessere emotivo, sociale o politico che fosse. Da qui infine il disagio, vissuto e teorizzato in mille forme, a volte rivendicato (come alterità), a volte demonizzato, ma comunque perno archimedico dell’infinito muoversi e rivoluzionarsi di quella civiltà. È a partire dal silenzioso declinare di questa civiltà che rischia il senno chi si è abituato a rapportarsi al mondo in termini di disagio, cioè di superamento eternamente dilazionato di un’inconformità, o meglio di un dialogo continuamente mancato tra speranza e opportunità, tra illusione e possibilità, tra utopia e politica. Rischia perché quel dialogo e quel disagio hanno finito per essere assorbiti dagli ingranaggi di funzionamento del grande acquario in cui nuotiamo ma hanno smesso di muoverlo, di agitarlo, limitandosi a girare a vuoto. Quel disagio e quel dialogo oggi non esistono più, almeno in quei termini archimedici, perché il grande acquario si muove e si agita da solo senza bisogno di noi, dato che ha regole di funzionamento che ci eccedono, o che ai nostri occhi sfuggono nella complessità infinita del suo linguaggio fatto di numeri e algoritmi. Fatto sta, con buona pace dei pesci, che oggi quel disagio non lo vediamo e non lo sentiamo, dato che è come se fosse evaporato. E in questa evaporazione non ha lasciato in eredità nient’altro che i propri sintomi.

Sintomi # 2_la felicità del mare

Certo, per coloro che non hanno conosciuto la civiltà del disagio, o ne sono stati solo minimamente lambiti, vivere in un mondo appunto liberato dal disagio deve essere come fare surf scivolando sulle onde del mare in preda a una continua ebbrezza: non ci sono limiti alla felicità del mare se è l’unica vita che conosco, io che lo cavalco non riconosco ostacoli. Non che i limiti o gli ostacoli non esistano, ma se esistono hanno la stessa consistenza delle onde, fanno parte del mare in cui scivolo notte e giorno. Certo, certi giorni le onde saranno altissime, come la mia ebbrezza al cavalcarle, certi giorni ci sarà bonaccia e io sarò ebbro solo dell’idea di ebbrezza, ma quel mare con le sue onde sarà sempre lì ad accogliermi tra le sue spume salate. E sempre lì sarà la sua promessa di felicità, una felicità fatta di ebbrezza e di mare, dato che io non conosco altra felicità. Ma da cosa mi viene questa felicità, se in realtà io (ma potrei dire anche noi) riesco ancora vagamente a sentire di non essere felice?

Questa felicità del mare, inabissandoci ancor più nella scivolosa sostanza delle metafore, è il sintomo, il residuo di quella evaporazione, di quel disagio. Se abitiamo il mondo come pesci costantemente sott’acqua, il sintomo residuo del disagio, il sintomo del malessere sociale, esistenziale, psichico, politico prende la forma di questa ebbrezza senza piacere, di questa eccitazione senza oggetto, essendo il mare che ci si offre tutto racchiuso dentro di noi. L’acqua dell’acquario che ci contiene, e quella del mare che ci riempie non solo sono due facce di una stessa medaglia, ma mostrano la stessa consistenza, la stessa qualità, la stessa natura. Tanto che la coazione all’ebbrezza la ritroviamo in ogni ambito della vita sociale o privata, dalla spinta compulsiva al consumo alla moltiplicazione narcisistica dei nostri ego su ogni canale comunicativo, dalla perpetua smania di un godimento immediato all’incontinenza emotiva e pulsionale nei confronti di tutto ciò che esce dai nostri orizzonti di attesa e di controllo. Ma questo perché succede? Perché questa ebbrezza è così forte e attraente? Perché ci affidiamo alla sua felicità anestetica?

Se la speciale felicità del mare è il sintomo del disagio evaporato, ciò che dà sostanza a tale felicità, la coazione all’ebbrezza, non sarà forse l’espressione più diretta del linguaggio che scrive e riscrive il nostro mondo, il nostro acquario-mare? Non sarà il dispositivo che ha assorbito su di sé il disagio che un tempo aveva pure in parte provocato? Non sarà la logica profonda del capitalismo, in particolare della sua ultima versione integrale e integralista? Non sarà il sintomo stesso della trasformazione del capitalismo nella religione di se stesso, una forma di vita che satura ogni spazio, che si muove dentro e fuori di noi, e che non riusciamo più a riconoscere o distinguere, se non appunto per questa irresistibile ebbrezza? Eppure quest’ebbrezza è anche qualcos’altro. È la ragione del successo del capitalismo, è la pulsione profonda contro ogni forma di civiltà intesa freudianamente come incontro e regolazione tra il principio di piacere proprio e quello altrui, è il sintomo di un’aggressività pulsionale non più contenuta ma valorizzata e resa modello: è il sintomo dell’affermarsi di un bisogno radicale di individualità che non conosce paragoni nella storia umana. Un individualismo narcisistico che è allo stesso tempo uovo e gallina, figlio e genitore della nostra civiltà del sintomo. Una civiltà che non solo (ri)conosce solo se stessa, ma di se stessa (ri)conosce solo i sintomi.

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Fotografabili

June 29th, 2014 — 2:36pm

Recentemente mi sono imbattuto su alcune fotografie dell’artista tedesco Michael Najjar. La serie si intitola High altitude, le foto sono immagini modificate del Monte Aconcagua, la montagna più alta della cordigliera delle Ande. Nelle foto le cime della cordigliera prendono la forma, a picchi altalenanti, dei vari indici titoli delle borse mondiali, Down Jones, Nasdaq, Nikkei, eccetera. L’idea è semplice, la serie, realizzata negli anni dell’ultima grande crisi economica, illustra che l’andamento delle borse valori ha ormai per noi cittadini ipermoderni la stessa solida, imperscrutabile ma anche virtuale realtà di un fatto di natura.

Al principio ho pensato alle solite espressioni di tanta arte contemporanea, dove si sostituisce il talento o il pensiero con una applicazione banale delle tecnologie, o quando va meglio si usano barocchi escamotage per stupire. E anche concedendo alle foto un qualche valore di penetrazione simbolica, ossia riconoscendo che l’aspetto metaforico delle montagne trasformate nell’indice Down Jones ci parli del mondo in cui viviamo, in cui anche la natura non solo non è immune dalle speculazioni finanziarie ma ne condivide la stessa sostanza essendo stata dal capitalismo completamente colonizzata, mi sono detto che in fin dei conti non c’era niente in quelle foto che aggiungesse pensiero a quello che già sappiamo.

Poi però quelle fotografie mi sono rimaste in mente; quelle immagini, anche loro malgrado, avevano qualcosa che aveva penetrato la mia soglia d’attenzione. Non sarà, mi sono detto riflettendo sul rapporto tra fotografie e realtà, che quelle immagini ci suggeriscono qualcosa non tanto sulla realtà, ma sulla realtà delle immagini? Non sarà che quelle fotografie, “fotografano” una realtà di altra natura, una realtà che a noi sfugge?

Se in termini estetici tradizionali, la fotografia per dirla con Baudrillard è «écriture de la lumière», è scrittura, traccia, sedimento di luce che impressiona la pellicola, e quindi espressione a un tempo riflessa e diretta del reale nella sua materialità, le immagini di Najjar che cosa sono? Che relazione intrattengono con quella montagna, con quella luce? Il vero contenuto della fotografia, scrive Barthes, è il «ça-a-été» che essa racchiude, il ciò che è stato che adesso è differito, l’oggetto che si è impresso nella pellicola da cui sorge l’immagine presente. E questo perché «la photographie n’est que contingence, singularité», non è altro che contingenza, singolarità, espressione dell’irriducibilità dell’oggetto a ciò che non è. «Chaque objet photographié», rincara Baudrillard, «n’est que la trace laissée par la disparition de tout le reste» («Ogni oggetto fotografato non è che la traccia lasciata dalla scomparsa di tutto il resto»): è necessaria una «interruption du sujet», perché nella fotografia accada una «irruption du monde»: è così che «le monde impose sa discontinuité, son morcellement, son instantanéité artificielle» («il mondo impone la sua discontinuità, il suo frazionamento, la sua istantaneità artificiale»), rivelandoci l’esatta consistenza dell’estraneità e della distanza spettrale tra realtà e immagine. Questo perché la scrittura della luce, l’impressione luminosa della pellicola, non fa altro che estrarre un frammento di realtà dalla sua continuità materiale (nel tempo e nello spazio). Ma che succede se le immagini invece di essere estratte dalla realtà, invece di essere impressione luminosa, sono come in questo caso un’ibridazione? Cosa succede se alla scrittura della luce si sovrappongono, o si sostituiscono scritture agite da altro? Se all’impressione si aggiunge la manipolazione?

Ma la domanda che urge investe non tanto la manipolazione in sé, cosa non certo nuova all’estetica, ma gli strumenti e reali agenti della manipolazione che modella l’immagine, coloro cioè che scrivono al posto della luce, vale a dire i famigerati algoritmi che fanno funzionare quei software di grafica usati per modellare le cime delle montagne e per reinventare letteralmente la loro luce. Chi è dunque il vero agente, il vero autore delle immagini? L’artista, o la complessissima sequenza di istruzioni racchiusa nell’algoritmo che regola, che so, la diffusione della luce intorno alle forme nel software di ritocco grafico? La mano e la sensibilità dell’artista che controllano uno strumento che funziona come qualsiasi altro, o quello stesso strumento governato da un linguaggio e da una sintassi assolutamente non neutri e che sfuggono alla nostra capacità di controllo, e che la grandissima maggioranza di noi non è in grado neppure di leggere o riconoscere?

Anche qui, il punto non è tanto sapere se la forza creatrice è stata usurpata all’uomo dall’automa (discussione intrisa di falso e stucchevole moralismo postumano), quanto piuttosto capire se invece di essere noi a estrarre (quindi scoprire, conoscere) frammenti di realtà convertendoli attraverso la macchina in immagine, oggi la macchina modella (quindi riscrive, rielabora) a nostra insaputa le immagini convertendole in frammenti di realtà; realtà a noi familiarmente estranea dato che compare come la naturale espressione del mondo tecnologico (seppure sia priva di un’effettiva carica di alterità, scaturendo dagli algoritmi, serie di istruzioni già scritte per operare secondo certi standard). Non si tratta, ovviamente, di realtà tout court, ma di quei frammenti di realtà che andranno a comporre parte delle nostre verità epistemiche (quelle verità che ci permettono di percepire il mondo come reale), così che reale riconosceremo la luce di quelle montagne creata dall’algoritmo (solo della loro ironica forma dubiteremo), reale riconosceremo la satura compattezza cromatica di quelle immagini, reale riconosceremo il suono algido di un file mp3, eccetera. Insomma, le fotografie di Najjar ci raccontano che il rapporto tra realtà e immagine ha subito una inversione, non più l’immagine espressione della realtà, ma viceversa, la realtà espressione dell’immagine. Inversione che qui è in qualche modo e chissà se consapevolmente, tematizzata: come gli algoritmi dei software di ritocco grafico modellano l’immagine, così gli algoritmi dei software finanziari modellano insieme alle nostre vite l’andamento dei mercati azionari (circa il 60% delle transazioni è realizzata dagli algoritmi in assenza di operatore umano), il che equivale a dire che strumenti creati dall’uomo, gli algoritmi, si sostituiscono all’uomo in un’azione tipicamente umana, quella di ricreare, modellare, adattare la realtà e ad essa adattarsi. Da cui una sorta di inversione nella dinamica che regolava i nostri processi di adattamento al mondo, tanto in termini conoscitivi e esperienziali, quanto pulsionali; ovvero, non il principio di piacere soggetto al principio di realtà, ma al contrario il principio di realtà soggetto al principio di piacere. Solo che qui, in questa strana coazione al godimento e al narcisismo tecnologico, il piacere non riguarda noi. Ma chissà la tecnologia stessa, che nell’espressione di sé ci attraversa. E forse ci usa.

Ecco allora che queste fotografie ci offrono uno spiraglio, un pretesto per osservare da vicino un fenomeno oggi tanto di moda da essere o estremamente significativo o incredibilmente insignificante, come i selfie, o le cosiddette fotografie social. Ora, a partire dalla loro enorme mole e dalla loro larghissima condivisione (e lasciando di lato il tema della cosiddetta democratizzazione della fotografia), quale rapporto hanno queste foto, questi selfie con la realtà? Quale col desiderio? Chi è che parla in quelle foto, chi è che si sporge sorridente verso milioni di potenziali monitor o display? E qui riemerge lo stesso dilemma che si poneva per le montagne e la loro luce: è il soggetto ritratto, nel caso dei selfie, ad affacciarsi, o è la forza creatrice degli algoritmi modellatori di luce a dichiarare la propria presenza?

Nel selfie, certo, il dilemma è complicato dalla doppia presenza della figura umana, che è sì convocata come testimonianza dell’esistenza di un soggetto, ma che appare anche come ritratto, espressione estetica di quella necessità simbolica cruciale per la nostra civiltà che consiste nel dare a quel soggetto un senso, un significato attraverso la sua trasformazione in segno, in forma, in immagine storicizzabile. Da una parte il gesto, lo scatto del selfier che vuole testimoniare la propria presenza (o la propria assenza, il proprio vuoto, suggerisce Massimo Recalcati), dall’altra la scrittura dell’algoritmo, che decide il fuoco, la luce, i colori, la densità dell’immagine (per non parlare poi degli eventuali filtri in stile Instagram, con set preordinati), ovvero che decide che tipo di ritratto quella foto sarà. O detto altrimenti, che decide il significato, il senso che sarà assegnato al soggetto che quella foto scatta. Senza addentrarsi nel genere dell’autoritratto fotografico, è utile rilevare come nel corso degli ultimi anni, con la diffusione degli smartphone, siano cambiati non solo i suoi stilemi, ma le sue condizioni tecniche, quindi il suo stesso statuto estetico. Se un tempo l’autoritatto aveva bisogno di calcolo (esposimetro, diaframma ecc.), di tempo (timer, scatto remoto), una buona condizione atletica nel caso della corsa per posizionarsi, o uno specchio nel caso la si volesse fare più semplice, oggi per il selfie le condizioni tecniche si sono radicalmente semplificate, e con loro la consapevolezza nell’uso del linguaggio fotografico: grazie ai software che regolano le fotocamere degli smartphone, è sufficiente stendere il braccio e scattare, gli algoritmi penseranno a realizzare una fotografia che rispetti gli standard di fuoco, esposizione, colore, eccetera. È chiaro che non è la luce a scrivere quella foto, non siamo noi a leggere, interpretare, modellare quella luce, ma qualcos’altro che lo fa per noi, e si poterebbe dire, indipendentemente da noi.

Se l’autoritratto tradizionale, creandosi, esprimeva in molti modi la natura desiderante del soggetto che scattava la fotografia, desiderio di esserci, di godere della propria figura fatta forma, di assegnarsi un senso valido per sé e da scambiare con gli altri, e in qualche modo, affidandosi alla scrittura della luce (e alla sua casualità, se vogliamo), dalla realtà estraeva di quel soggetto un’immagine, adesso con i selfie la natura desiderante si fa ambigua: non essendo più il soggetto a creare il proprio ritratto, ma gli algoritmi, seguendo degli standard rigorosi, il desiderio rimane solamente come intenzione svuotata, incarnandosi in un ventaglio limitato di possibili espressioni; e ritrovando il suo reale significato nella forma solida e compulsiva della partecipazione a un rito di massa, o chissà nel piacere astratto dell’identificazione nel riconosciuto e nel riconoscibile, nella coazione a far parte del grande flusso. Il desiderio in questo senso non attraversa più il soggetto, ma paradossalmente è il veicolo attraverso cui ad attraversarlo sono le verità degli algoritmi, i frammenti di realtà che appunto essi creano creando le immagini, i frammenti di realtà sociale che essi creano creando i selfie come ritratti. E non sarà allora questa l’espressione al momento più cristallina di quella coazione al godimento e al narcisismo tecnologico (dove la tecnologia rimpiazza addirittura il nostro desiderio) che sta colonizzando e forse sostituendosi alla realtà (intesa come conflitto tra mondo e desiderio) e soprattutto ai suoi corollari, l’illusione, la speranza, l’utopia? E non sarà soprattutto che una delle epidemie comunicative del nostro tempo, vera malattia esantematica, la fotografia, non ne sia il sintomo più vistoso?

Questo spiegherebbe perché i selfie, e le foto social, non solo funzionano tanto, ma rappresentano la grande maggioranza delle milioni di fotografie che si scattano ogni giorno. Perché semplicemente ci risparmiano la fatica, anche pulsionale, di mettere in gioco il nostro desiderio, in primis quello di esserci. Perché semplicemente ci aiutano a dare la risposta più semplice alla nostra ormai indiscriminata crisi della presenza (come la chiamerebbe De Martino), all’incapacità di essere nel mondo riuscendo a dotare noi stessi e quel mondo liquido di senso: cioè negandola, negando a noi stessi l’evidenza di quella crisi, moltiplicando all’infinito la nostra immagine senza desiderio per essere, attraverso di lei, presenti pur senza esserci. Anche se a mostrare la propria presenza prima ancora di noi sono gli algoritmi, veri oggetti desideranti, che al proprio mondo dotato di senso (essendo perfettamente scritto e finito) aderiscono indifferentemente anche con la fotografia. Che non riesce più a essere, almeno così sembra in questo momento, né spazio di desiderio, né di realtà, ma solo di riconoscimento sociale: estraendo la nostra immagine, senza preoccupazione estetica, cioè senza curarci dell’illusione, del miraggio, della speranza che dalla fotografia possono scaturire, ci consegniamo all’evidenza di noi semplicemente come esseri fotografabili, e identificandoci completamente nella nostra nuova natura di fotografabili, ci solleviamo dalla fatica, nel dare senso alla fotografia, di dare senso a noi stessi.

Tutto questo nell’attesa che l’illusione del desiderio ci renda prima o poi nuovamente presenti alle nostre stesse fotografie.

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