Cul de sac 2

Gianmaria Nerli |[saperi aristocrazie classi]

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Saperi # 1_tra i frutti maturi

I più informati tra noi oggi dormono sonni tranquilli. Sanno bene che tutto è a portata di mano, tutto è lassù, immagazzinato tra le nuvole, pronto per essere colto al bisogno. È come camminare tra gli alberi di un frutteto, se hai fame alzi una mano e prendi la mela. I più informati tra noi sanno bene come raggiungere ogni frutto, se hanno bisogno di una mela la colgono al volo, se hanno bisogno di un mango, di un’arancia, di un maracuyá, di una nespola o di un grappo d’uva allungano una mano, e via, si nutrono a piacimento. Sanno bene che mai come adesso ogni loro appetito, dal futile capriccio al nutrimento di sostanza, avrà risposta in poco tempo, essendo tutti i frutti raccolti e catalogati una volta per tutte da qualche parte tra le nuvole delle reti globali. Ogni frutto che cercano è già dato, ogni sapere di cui hanno bisogno è già sistemato, ogni conoscenza definita e collocata da qualche parte dentro gli infiniti server che contengono tutte le informazioni del mondo (si sprecano ovviamente i gai annunci sui miliardi di dati che si accumulano ogni ora nel mondo, un’ora di oggi ci regala più informazione di un secolo di ieri). I più informati dormono sonni tranquilli, a sentir loro, ma forse gli altri no, si agitano nel sonno, ancora infestato da fantasmi in cerca di risposte che non arrivano mai.

In effetti, a voler dare il senso di un cambiamento profondo nel paradigma contemporaneo della conoscenza, si potrebbe dire che se fino ai nostri giorni – passando per le modernità di Sei, Sette, Otto e Novecento –, il sapere era un deserto popolato di fantasmi senza riposta, o con risposte contraddittorie, oggi a noi il sapere si mostra come un frutteto dai frutti maturi, già pronti per essere presi e mangiati così come sono (se non anche un ipermercato dove brillano confezioni già predisposte all’uso). Buoni, veloci, sicuri. Pare paradossale, ma non lo è, che nell’epoca dell’incertezza, dove sembrano dissolversi i paradigmi e le identità sociali, dove i generi sessuali rischiano di estinguersi, dove i legami relazionali, affettivi, comunitari si sciolgono dagli antichi riti e dagli antichi modelli lasciandoci senza riparo, pare paradossale, ma appunto non lo è, che in un tale contesto il sapere, o meglio i saperi, accumulati dalle innumerevoli scienze in tanti anni, appaiano privi di incertezze. Sicuri, collaudati, approvati. Anche se le scienze (e le tante nuove scienze popolari) si tutelano con mille cautele protocollari, il loro sapere di fatto si offre come un insieme compatto, definito, già dato e collocato, sembrerebbe, una volta per tutte. Il sapere è appunto un frutteto di cui piano piano si definiscono i contorni, si delineano meglio gli elementi, si adattano le forme, e soprattutto i cui frutti sono sempre lì a nostra disposizione. Che vuol dire alla disposizione di chiunque (suprema illusione delle ingenue democrazie della rete), che anzi dentro quei saperi, supremo protocollo di verità, può mettere le mani e magari manipolarli all’infinito, senza intaccarne l’autorità (una verità condivisa è sempre una verità un po’ più vera, una verità come si usa dire al quadrato). Saremmo a un passo dalla felicità, ogni sapere condiviso, ogni bene fruibile, ogni contesa strategica alla portata di tutti, se non fosse che ogni tanto qualcuno tra noi si accorge che anche i frutti più maturi nascondono i loro bei fantasmi. Fantasmi che hanno il potere e il privilegio di rendere quei frutti incommestibili.

Saperi # 2_il padre viene dal futuro

Ma da dove vengono questi fantasmi? Perché perseverano nel loro tormento, spettri di autorità che non dovrebbero più intimorire nessuno? Se un tempo, liberi di scorrazzare nel loro deserto, o magari confinati tra le istituzioni deputate alla conoscenza (università, centri di ricerca, case editrici ecc.), questi fantasmi ricevevano linfa dai tanti conflitti che davano forma al sapere (tra tutti il contrasto d’autorità tra saperi ereditati e quelli messi a nuovo, tra i saperi di una classe sociale e quelli di un’altra), oggi sembrano non essere più un patrimonio pubblico, ma al più hanno licenza di sopravvivere accompagnando l’intelligenza di particolari personalità, o si limitano a illuminare fiocamente le cosiddette coscienze individuali, o al massimo brillano di luce intermittente all’interno di comunità di sodali. Eppure l’immagine del fantasma è sempre lì a far paura, a richiedere di essere continuamente esorcizzata, spazzata via, quando va male asfaltata (tra le figure pubbliche meno apprezzate attualmente non ci sono forse gli intellettuali, soprattutto chi rifiuta di specializzarsi?) Perché? Perché abbiamo bisogno di far sparire questi fantasmi? Qual è la posta in gioco? Se il fantasma è in qualche modo il residuo del nostro incontro con il padre – la legge, l’autorità del sapere, dei riti, della cultura, dell’identità, tutti campi di forza che si ereditano e che ci arrivano da un prima di noi –, il rifiuto di questo fantasma con tutti i suoi elaborati complessi (i dubbi, i conflitti, le indeterminatezze, perché no un certo tipo di violenza) è la volontà di non incontrarsi né scontrarsi con tutto ciò che ci ha preceduto. Ciò che mi precede non mi interessa. Ciò che mi ha preceduto, non mi tocca. Pena la dissoluzione di ogni progresso/promessa di futuro verso la realtà integrale delle nostre economie di mercato. Il padre, il fondamento della legge, dell’autorità, del sapere, non è più come un tempo dietro di noi, non ci orienta spingendoci alle spalle, ma ci precede nel futuro, è già avvenuto dopo di noi, è già dato, ci trascina verso di sé con lunghe corde, stringe nodi per noi senza che lo si possa nemmeno intravedere, e con ciò si erge al di sopra di qualsivoglia conflitto. È un padre senza eredità, ma ricolmo di promesse, promesse fatte al buio, ma visibilissime, limpide, brillanti. È un padre la cui legge non è confutabile, né verificabile perché avverrà dopo noi, ma è già scritto, situato, collocato, suddiviso in informazioni stoccate tra pesanti coltri di nubi. Il sapere di cui godiamo tutti noi è già scritto nel futuro, ma a differenza di un tempo, non lo si conquista più attraverso lo studio, la scommessa, la predizione (si predice qualcosa che deve ancora avvenire), lo si conosce solamente per anticipazione, dato che quel sapere, in una specie di iperparadosso di universalità, è già avvenuto nel futuro. Il sapere del nuovo padre, il sapere cioè che tutti noi vuole afferrare dal futuro, è lì, frutto maturo che coglieremo.

Ma chi dobbiamo ringraziare per questi frutti? Chi dobbiamo ringraziare per aver trasformato la ricerca del sapere in un problema sostanzialmente tecnico (aver accesso alle reti, qualsiasi tipo di rete), cioè saper alzare la mano laggiù dove il frutto è depositato? Del resto qualsiasi nostro problema è trasformato in un problema sostanzialmente tecnico, fin dal momento, almeno, in cui qualsiasi nostro moto, pensiero, desiderio verso un oggetto entra nel sacro recinto del bene di consumo, che ha ormai il monopolio di ogni liturgia, rituale o culto umano (fuoriusciti ormai dal sacro i corpi, le persone, la stessa vita presente o futura), e che assoggetta e sussume a sé qualsiasi altro possibile spazio d’azione: da qui la tecnica/tecnologia come educazione, esercizio, catechesi per raggiungere i molti porti del sacro recinto del bene di consumo, sacro recinto che include, quale principale attrazione i saperi, quegli stessi saperi che il distratto padre del futuro non ci lascerà mai in eredità, ma che ci promette oggi di poter acquisire sotto forma di semplice frutto.

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