L’esperienza anticipata
Riccardo Finocchi | saggio
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Mi domando: è possibile raccontare la filosofia? Ciò che vorrei fare davvero è rivolgere uno sguardo filosofico ad avvenimenti e fenomeni che sono collegati strettamente alle attività quotidiane degli esseri umani, e osservarli attraverso un racconto che non significhi rinunciare a “fare filosofia”. È certo, non voglio dire che la filosofia pensata come un’attività puramente speculativa e svincolata dalla mera materialità, volta a cogliere categorie di tipo astratto, sia qualcosa d’inutile. Tutt’altro. Nemmeno che lo studio del pensiero classico sia ozioso, anzi è fondamentale per la comprensione di quanto, di quel pensiero, rimane ancora nella contemporaneità, di quanto ancora agisca nell’orientare le nostre azioni. Quando, però, fare una filosofia speculativa deve portare a disputare sul fatto – come pur mi è accaduto di ascoltare – che laddove Heidegger abbia scelto di apporre a una sua frase un punto fermo piuttosto che un punto e virgola, allora sarebbe il sintomo evidente di una ricaduta nella metafisica… che dire!?
Diversi anni or sono, più o meno all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, andai ad abitare in una casa del centro storico di Roma dove, tra l’altro, era rimasto uno di qui telefoni neri in bachelite, di quelli con la rotella girevole per comporre i numeri, un telefono che era già vecchio allora. Decisi di usarlo. Naturalmente sulla rete fissa, non esistevano altre reti per la telefonia. Di fatto voglio raccontarvi di telefoni. Il vecchio telefono aveva gli altoparlanti alimentati a carboncino (almeno così mi fu detto quando tentai di ripararlo) che, ormai consumati, producevano una particolare alterazione della voce. Al mio “pronto” puntualmente l’interlocutore replicava: “va tutto bene!? Stai bene!?”. La voce risuonava ovattata e metallica, forse nasale, e mi dava un tono vocale da costipato, o quantomeno addormentato, per cui l’interlocutore incalzava: “ma ti disturbo!? Stavi dormendo!?”. Certo, abituati ad ascoltare la mia voce, gli amici facevano fatica a riconoscermi… parevo un altro, sembrava la voce di un altro… la voce dell’altro… quante implicazioni filosofiche sono contenute nella voce dell’altro, quanta filosofia dell’alterità ha potuto speculare sulla fondatività del riconoscimento dell’altro per la costituzione di un’identità: nella voce dell’altro posso riconoscere ciò che mi racconta, così come solo nello sguardo dell’altro, come mi vedessi in uno specchio (Lacan docet), posso veramente riconoscermi.
Certo diversa esperienza è rispondere a un telefono portatile, il cellulare o telefonino che dir si voglia. Appunto, proprio di esperienza stiamo parlando. Così alcuni giorni fa parlando al telefono, un telefono portatile naturalmente, dopo che la conversazione aveva preso avvio, il mio interlocutore ha esclamato con una certa soddisfazione: “ah, ma sei tu!”. Il suo apparecchio cellulare si era guastato e il display non “annunciava” più il nome del chiamante, ogni telefonata era una telefonata anonima. Ma dopo un breve sforzo, un tempo diciamo di studio, mi aveva effettivamente riconosciuto. Era rimasto in attesa di percepire (e questo “percepire” e questa “attesa” sono filosoficamente rilevanti, ci torneremo) un segnale che gli permettesse di riconoscere la voce dell’altro. Cosa c’è di strano in ciò? In fondo il mio interlocutore non ha fatto altro che mettersi in ascolto, ha cercato di ascoltare la voce dell’altro per “identificare” l’altro (torna la questione dell’identità). Anomalo, semmai, è stato il tempo necessario a riconoscermi, leggermente troppo lungo. Ma è singolare anche il fatto che io mi sentissi già riconosciuto, che considerassi acquisito il fatto che l’altro sapesse già chi io fossi prima ancora di aver potuto incontrarmi effettivamente, prima ancora di aver potuto fare “esperienza” effettiva della mia voce. Un guasto tecnico, il malfunzionamento del cellulare, ha messo in crisi l’esperienza dell’altro. D’altronde, del fatto che il telefono sia un dispositivo tecnico che impatta sull’esistenza degli esseri umani ci avevano già avvisato, attraverso la semiotica e l’estetica, Gianfranco Marrone e Maurizio Ferraris.
Qui, però, mi interessa un particolare aspetto dell’episodio che ho raccontato. Mi interessa quel tempo di attesa e quel percepire (nel caso specifico: l’altro). Forse il mio interesse riguarda la possibilità di un’azione (e l’agire è importante) filosofica sui fenomeni del quotidiano, quantomeno sulla loro manifestazione in “segnali” o “segni” concreti. Cosa è accaduto in ciò che ho raccontato!? Beh, è risultato evidente che nella quotidianità ci sfugge qualcosa, non prestiamo abbastanza attenzione al fatto che il nostro telefono cellulare annulla l’attesa (NB: il tempo) che il percepire comporta, l’annulla anticipandola: so chi mi parlerà prima ancora di sentirlo parlare.
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